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Baby gang, una 16enne ha rotto muro di omertà sul pensionato aggredito. Un altro caso sospetto…

A Manduria la fidanzata di uno dei minorenni fermati si è presentata in commissariato per riconoscere gli aggressori e a raccontare di alcuni adulti che stavano provando a inquinare le indagini

di Chiara Spagnolo

C’erano i bulli che torturavano un pensionato inerme, filmando le aggressioni e inviandosele in chat per sconfiggere la noia dei sabati di provincia. Gli adulti che hanno visto quei video e hanno fanno finta di non sapere, i genitori che credevano fosse soltanto una bravata e quelli che hanno provato a inquinare le prove per salvare i figli dallo scandalo. E poi lo zio di uno degli aggressori, che contattava gli altri componenti della banda per intimare loro di non fare il nome del nipote alla polizia, la professoressa che ha visto il filmato in cui agiva il suo alunno picchiatore e si è limitata a segnalarlo alla madre.

E ancora: i vicini di casa, che per settimane hanno ignorato le urla dell’uomo picchiato e insultato. I Servizi sociali che ufficialmente non sapevano nonostante un’insegnante dica di averli coinvolti. I parenti che dopo i funerali di Antonio Stano (deceduto il 23 aprile a causa di un’emorragia gastrica) continuavano a ripetere di non aver mai ricevuto richieste di aiuto. C’era un intero paese, Manduria, che sapeva e ha preferito voltarsi dall’altra parte di fronte al dramma della solitudine di un sessantaseienne. E forse anche di fronte a episodi simili, che hanno avuto come vittima un altro “soggetto debole” e di cui sono state trovate tracce negli smartphone dei bulli.

Ma questa è un’altra storia, su cui si indagherà. Per ora è arrivata a una svolta la terribile vicenda di Antonio, vittima di “ piccoli criminali ben organizzati”, come li hanno definiti il procuratore di Taranto e la procuratrice dei minori, Carlo Maria Capristo e Pina Montanaro. Sono stati loro – con il pm Remo Epifani e a conclusione delle indagini di polizia – a firmare i decreti di fermo per otto giovanissimi, due maggiorenni (G.L. di 19 anni e A.S di 23) e sei minorenni, accusandoli di tortura, danneggiamento, violazione di domicilio e sequestro di persona aggravato.

Avrebbero partecipato ad almeno cinque aggressioni, che hanno lasciato lividi sul corpo del pensionato e un terrore tale da spingerlo a non uscire più di casa neppure per comprare il cibo. I due maggiorenni sono finiti in carcere, gli altri in una comunità in attesa che il gip decida se emettere un’ordinanza di custodia cautelare. Altri sei ragazzini sono indagati e altri ancora potrebbero esserlo nei prossimi giorni. Insieme con alcuni adulti perché – ha promesso Capristo – “indagheremo anche sulle responsabilità di chi sapeva e non ha segnalato”.

I Servizi sociali, per esempio, che la professoressa di uno dei minorenni arrestati afferma di avere informato alcune settimane prima della morte di Stano. Oppure i vicini di casa dell’uomo, che soltanto a inizio aprile hanno messo le loro firme sotto una denuncia. In mezzo a contraddizioni e mezze verità, spicca la voce fuori dal coro di una sedicenne, fidanzata di uno dei minorenni fermati, che si è presentata in commissariato insieme con la madre per consegnare i video delle torture.

È stata lei a riconoscere gli aggressori, lei a raccontare di alcuni adulti che stavano provando a inquinare le indagini. Ha fatto nomi e fornito prove, aiutando i poliziotti a inchiodare i responsabili. A consentire la svolta nelle indagini hanno contribuito le ammissioni del 19enne finito in carcere, che ha ammesso che l’abitudine “di andare a sfottere il pazzo “ fosse il rimedio alla noia del sabato sera: ” A. è sceso per primo dall’auto e ha cominciato a sferrare calci alla porta di ingresso, da dentro si udivano le urla di una persona che implorava ” state fermi.” Poi la porta si apriva, un uomo è uscito, A. gli ha sferrato un forte schiaffo sul volto e calci, intanto il mio amico riprendeva tutto“.

“La dinamica del branco non veniva messa in atto soltanto attraverso azioni fisiche – ha spiegato la procuratrice Montanaro – ma anche attraverso la condivisione delle riprese delle loro nefandezze”. Significa che il web era diventato lo strumento per amplificare la violenza. Quella di cui nessuno dei ragazzi si è pentito, ma di cui hanno soltanto cercato di eliminare le prove. Cancellando le chat…

www.repubblica.it

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