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Burkina Faso, se la lotta al terrorismo diventa un carnaio.

Erano sospettati di terrorismo e sono stati trovati morti in cella. Le famiglie chiedono giustizia e le autorità aprono un’inchiesta. È solo l’ultimo episodio torbido di una guerra che si sta combattendo nel Sahel: non piega il jihadismo, produce rancore e scava solchi etnici.

di Andrea de Georgio

Dodici uomini fermati perché «sospettati di fatti di terrorismo» muoiono, la notte tra l’11 e il 12 maggio, nella cella di una caserma della gendarmeria di Tanwalbougou, nell’est del Burkina Faso, dopo essere stati arrestati il giorno prima con altri 23 sventurati. La maggior parte erano di etnia peul/fulani.

«Asfissia», «incidente», secondo fonti dell’esercito burkinabé. «Avevano il volto sfigurato dai colpi di arma da fuoco, alcuni erano smembrati», secondo testimoni oculari raggiunti da Le Monde e dalla agenzia France Presse. Un’inchiesta ufficiale è stata aperta per definire una verità. Verità quasi sempre poi insabbiata dalle autorità.

Una lunga lista

Nella guerra (santa?) al terrorismo di matrice jihadista in Burkina Faso – come già tristemente visto negli altri paesi del martoriato Sahel centrale: Mali e Niger – le forze di sicurezza hanno la mano pesante. Questo, infatti, non è che l’ultimo episodio di violenza sommaria contro civili inermi, giustiziati senza un equo processo.

È successo il 2 maggio, quando un maestro peul è stato trovato morto in una stazione di polizia della capitale Ouagadougou.

È successo il 9 aprile, quando 31 corpi di uomini, tutti peul dai 20 ai 60 anni, sono stati gettati dai soldati burkinabé in una fossa comune a Djibo, nel nord del paese, durante un operazione definita dalla direttrice per l’Africa occidentale di Human Rights Watch (Hrw), «parodia brutale d’operazione antiterrorista, suscettibile di essere un crimine di guerra che rischia di generare un nuovo ciclo di atrocità».

Corinne Dufka rincara la dose: «Il governo dovrebbe fermare le violazioni, indagare a fondo su questo terribile incidente e adottare una strategia antiterrorismo che rispetti i diritti umani». Qui i più cinici diranno che la guerra al terrorismo, nel Sahel come altrove, non si vince certo con le parole. Vero.

Ma se da un lato negli ultimi mesi sono cominciati i discussi negoziati del governo Kaboré (seguito dall’omologo maliano Keita) con i leader jihadisti, dall’altro sono sempre i civili, carne da macello a cui tutte le sventure terrene sono indirizzate, a pagare il prezzo più alto, senza nemmeno la cortesia del principio d’innocenza. Una benda sugli occhi, un laccio per i polsi e una pallottola nel cranio.

E dalla sabbia del Sahara riemergono i tristi ricordi delle fosse comuni traboccanti di vecchi e bambini, fuori Timbuctu, del 2013, o il “pozzo degli orrori” di Sevare, sempre durante la guerra in Mali. Là erano tutti tuareg. Che ricordi poi non sono, visto che nel centro del Mali, come nel nord del Niger, gli eserciti mostrano il volto più disumano della guerra a gente colpevole solo di essere nel posto sbagliato, al momento sbagliato, con la pelle sbagliata.

I peul, oggi perseguitati in tutta la regione, sono generalmente chiari di pelle e, come i tuareg, presentano riconoscibili tratti somatici diversi dalle etnie originarie della zone forestiere saheliane.

Quando chi dovrebbe proteggere i propri figli inermi contro la furia jihadista si trasforma nel carnefice, i tratti della bestia si confondono e la soluzione al conflitto armato si allontana di altre mille lune, rammenta il saggio. L’amalgama che trasforma ogni pastore seminomade peul in “amico dei terroristi” è humus fertile per il reclutamento dei giovani di quest’etnia, massicciamente attirati dalle sirene della “giustizia terrena” offerta da questa deviata forma di assistenzialismo militante.

Conflitto etnicizzato

Intanto la situazione nell’est del Burkina continua a degenerare. Cicliche operazioni delle forze speciali burkinabé – spesso giovani mandati allo sbaraglio con una paga da fame e un equipaggiamento inadeguato – si susseguono sul terreno, concentrandosi nella zona di Fada Ngourma, proprio dove hanno perso la vita i 12 «presunti terroristi».

Giudicati senz’appello in una cella da soldati esasperati che continuano a perdere amici e compagni d’armi nell’asimmetrica guerra contro Al-Qaida nel Maghreb islamico (da marzo 2018 chiamato Gruppo di sostegno all’islam e ai musulmani, Gsim) e lo Stato islamico nel Grande Sahara.

Oltre 755mila nuovi sfollati interni si sono aggiunti alle centinaia di migliaia di persone che in questi bui anni sono fuggiti dalla regione orientale e dall’infestato nord verso la capitale del Burkina Faso. L’Unhcr denuncia un indiscriminato attacco delle forze di sicurezza burkinabé contro i profughi del campo di Mentao, nella zona di Djibo, il 2 maggio.

Una bomba ad orologeria che, senza giustizia per i civili e soluzioni diplomatiche ormai imprescindibili, rischia di esacerbare la spirale di violenza di un conflitto sempre più stratificato e strumentalizzato in chiave etnica da entrambi i fronti. Una tempesta perfetta che spazza le sabbie del Sahel, riportando alla luce orrori e dolore che il tempo faticherà a ricoprire.

Nigrizia

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