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Caporali italiani sfruttano braccianti stranieri: a Mondragone nulla cambia

Tre anni fa l’inchiesta di Avvenire nei luoghi dello sfruttamento. E oggi nuovi arresti di imprenditori che fanno lavorare 12 ore al giorno per una paga tra i 2 e i 4 euro l’ora

di Antonio Maria Mira

A Mondragone lo sfruttamento dei braccianti immigrati non si è mai fermato. Neanche durante questo anno di pandemia. Anzi, è peggiorato. Non solo i lavoratori bulgari ma anche nordafricani. Ancora una volta moltissime donne. Al lavoro per 12 ore al giorno e pagate tra 2 e 4 euro l’ora. Schiave di imprenditori italiani senza scrupoli. Tre anni fa l’inchiesta di ‘Avvenire’ fece emergere questa realtà di gravissimo sfruttamento. Ma l’Italia la scoprì un anno fa quando nella comunità bulgara scoppiò un focolaio di Covid-19.

Un’attenzione durata pochissimo. E lo sfruttamento è ripreso come e peggio di prima. Lo conferma l’inchiesta dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, coordinati dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, che ha portato in carcere un imprenditore agricolo, molto importante e famoso, e un altro ai domiciliari, entrambi di Mondragone ma operanti anche a Falciano del Massico, accusati di associazione a delinquere dedita allo sfruttamento del lavoro e all’intermediazione illecita di manodopera (il cosiddetto caporalato) a beneficio delle proprie aziende e di altre. A due caporali sono state invece notificate le misure dell’obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria.

«Gli immigrati sono gli sfruttati, gli sfruttatori e i caporali sono italiani. E quella dell’imprenditore arrestato non è una piccola azienda, ma ben strutturata», sottolinea il capitano Simone Vecchi, comandante della compagnia della Guardia di Finanza di Mondragone che ha proceduto all’esecuzione del sequestro preventivo dell’intero complesso aziendale di due imprese agricole utilizzate nelle attività criminose nonché di beni, denaro e valori ritenuti proventi diretti e/o indiretti delle medesime attività, per un valore complessivo di oltre 1,8 milioni di euro.

L’azienda dell’imprenditore finito in carcere era l’azienda ‘madre’, a cui si raccordavano le aziende satelliti dislocate sul territorio mondragonese e di altri paesi casertani come Castel Volturno, Grazzanise e Villa Literno. Lo sfruttamento ha riguardato centinaia di braccianti bulgari e nordafricani, prevalentemente donne, impiegati sia in serra che in campo aperto. «In condizioni di lavoro estreme – spiega ancora il capitano –. Dodici ore di lavoro sollevando casse di pomodoro da 20 chili è una condizione disumana. E con qualunque tempo».

Questo per 6-7 giorni alla settimana, con una retribuzione oraria media che non superava i 4 euro e in parte finiva nelle tasche dei caporali, peraltro loro stessi imprenditori. Condizioni che si è riusciti ricostruire tramite attività di intercettazione e di prolungati servizi di appostamento, osservazione occulta e pedinamento, svolti anche tramite l’utilizzo di ‘droni’ per monitorare dall’alto sia il lavoro nei campi che il trasporto su furgoni stipati di braccianti, ‘arruolati’ come sempre in alcune piazze di Mondragone.

Venivano effettuati dai 20 ai 60 ‘trasporti’ al giorno che sono stati seguiti dai droni che hanno offerto una precisa mappatura delle prestazioni lavorative illecite nei campi e delle condizioni di sfruttamento. Tutto reso possibile dalla legge 199 del 2016, la cosiddetta ‘anti caporalato’, ancora una volta rivelatasi strumento fondamentale. Anche perché, osserva il capitano, «nessuno dei braccianti ha denunciato. La denuncia è più unica che rara. La condizione dell’immigrato è una condizione precaria, soprattutto se ha qualche irregolarità nei documenti». E lo sfruttamento non si è fermato col Covid. «Questi imprenditori non sono tra quelli che si sono bloccati. Nessuna precauzione sanitaria, era l’ultimo dei problemi». Sfruttamento in una terra di agricoltura ricca e di qualità. Eppure, riflette ancora l’ufficiale, «purtroppo è un fenomeno molto diffuso che, al di là della brutalità del reato nei confronti dei lavoratori sfruttati, inquina il mercato. Crea una concorrenzialità disumana, un risparmio del 200% sul costo del lavoro, non pagando ovviamente sui lavoratori né tasse, nè contributi»

Avvenire

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