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Coi barconi in Calabria due sorelline irachene disabili / La storia

I genitori hanno pagato 15mila euro ai trafficanti turchi: cercavano cure e assistenza per le figli. Le due bambine, 7 e 13 anni, non parlano, non camminano, non sentono. La quarantena in Sicilia

di Antonio Maria Mira

Hanno viaggiato per cinque giorni in braccio a mamma e papà, Hana e Hona, le due bambine irachene disabili gravi arrivate in Calabria su una barca tre giorni fa.

Cinque giorni in una barca a vela di 15 metri strapiena di più di cento persone: è duro e faticoso per tutti. Per le due piccole ancora di più. Le sorelline hanno 7 e 13 anni. In un primo momento erano sembrate gemelle perché la gravissima sindrome che le ha colpite le ha rese molto simili.

Hana e Hona non camminano, non riescono a usare le mani, non sentono, non parlano, fanno fatica a mangiare, devono portare il pannolino. In queste condizioni hanno dovuto affrontare non solo i 5 giorni in mare ma anche il mese impiegato tra l’Iraq e la Turchia, dove poi si sono imbarcate. Sempre in braccio a mamma Weat e papà Safar.

Per questi giovani genitori, entrambi poco più che trentenni, era il viaggio della speranza, come ci spiega Silvana Mercuri, volontaria della Protezione civile di Roccella Jonica, il Comune che sta accogliendo gran parte del crescente flusso di immigrati in Calabria. «Volevano andare in Germania per curare le figlie. Lì non hanno parenti, ma sono convinti di poter trovare quello che in Iraq non hanno mai avuto, sia cure che assistenza». Illusione e disperazione. Come tanti “invasori” e “clandestini” che sbarcano sulle nostre coste. Così hanno pagato 15mila euro ai trafficanti turchi per salire su quella barca affollatissima. Soldi raccolti tra familiari e amici.

Ora mamma e papà sorridono, sperano per le loro piccole. E continuano a ringraziare. Ma quanto è stato duro il viaggio. «Sono arrivati bagnatissimi dalla pioggia e infreddoliti. Quando li ho visti mi sono messa a piangere – ci confessa Silvana che in questi mesi ne ha visto tanto di dolore e disperazione –. Quanti disabili ho visto in questi sbarchi – si sfoga –: un dolcissimo bimbo down, un bimbo cieco. Ma due sorelline così mai. Non potrò mai dimenticarle».

La volontaria riflette ad alta voce: «Quello che sento, queste emozioni, le provi solo se le vivi. Se non li vedi, non capisci». E lei si è subito impegnata con le due piccole: «Le abbiamo aiutate a mangiare: omogeneizzati, yogurt, succhi di frutta. Abbiamo ascoltato i problemi e le preoccupazioni dei genitori. Persone educatissime». Un ascolto che da mesi lei e gli altri volontari fanno sulla prima linea dell’accoglienza, lasciati soli: loro e l’amministrazione comunale, col sostegno solo della prefettura di Reggio Calabria. Perché gli sbarchi in Calabria sembrano non interessare, anche se solo a Roccella Jonica sono arrivate quest’anno quasi tremila persone: la metà della popolazione del paese della Locride. Non è un problema locale, ma nazionale; però è trattato come se fosse solo un approdo.

Così giovedì pomeriggio 104 dei 114 sono stati trasferiti. Un altro viaggio, in pullman, di almeno 8 ore, destinazione Sicilia: Porto Empedocle, nave quarantena. Anche le due piccole disabili. «Prima di partire i genitori ci hanno voluto salutare e ringraziare per come avevamo aiutato le figlie. Mi sono commossa», racconta Silvana con la voce che trema. E aggiunge: «Hanno bisogno di tanto aiuto. Speriamo che lo trovino».

Già. Ma era proprio obbligatorio trasferire su una nave le bambine? Non potevano passare la quarantena in una struttura più adatta a loro? Con l’assistenza adeguata alla loro gravissima condizione? Le giuste precauzioni sanitarie potevano essere garantite assieme alla protezione di persone così fragili. Questa è l’accoglienza vera, soprattutto per chi parte con un pesante bagaglio di disperazione e speranza. Hana e Jonica hanno diritto a un’assistenza vera, mamma Seat e papà Safar hanno diritto a un aiuto vero, per provare a costruirsi una vita più normale possibile.

Avvenire

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