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Dieci anni fa, la Primavera araba. Dai giovani in piazza alle rivoluzioni incompiute

Dal gesto estremo di un fruttivendolo tunisino nacque la protesta che poi si estese a molte piazze del Nord Africa e del Medio Oriente mettendo alla corda quasi tutti i regimi autoritari che duravano da decenni.

Una donna completamente coperta dal velo nero accoglie tra le braccia un uomo ferito, i guanti bianchi contrastano con la pelle nuda di lui segnata dalle percosse. Di lei si coglie solo lo sguardo colmo di tristezza attraverso il niqab. La madre e il figlio, come nel capolavoro di Michelangelo, si stringono in una moderna Pietà. Quest’immagine racchiusa nello scatto dello spagnolo Samuel Aranda è stata scattata in una moschea di Sanaa, capitale yemenita, il 15 ottobre 2011 e ha vinto il World Press Photo. E’ considerata la foto simbolo della Primavera Araba perché con la sua delicatezza dirompente ha raccontato più di ogni altra il dramma della lotta per la libertà dai regimi.

La Primavera Araba iniziava dieci anni fa e da lì partiva un effetto domino rivoluzionario che dalla Tunisia, passando dall’Egitto, arrivò alla Libia e fino al lontano Yemen scuotendo Nordafrica e Medio Oriente all’inseguimento di libertà e democrazia, ma spesso generando guerre civili e governi resi repressivi dall’instabilità: più di 380 mila morti e milioni di profughi in Siria, due rivoluzioni (una interpretabile come colpo di Stato) in Egitto, tre guerre civili nella Libia che dista 300 km da Lampedusa, sono solo alcuni esempi di un bilancio doloroso.   

Tunisia Il 17 dicembre 2010, Mohammed Bouazizi, un venditore ambulante di Sidi Bouzid, in Tunisia, si dà fuoco in segno di protesta contro le angherie subite ad opera della polizia e per le difficili condizioni economiche del suo paese. E’ la scintilla di una sollevazione popolare che nel giro di qualche settimana costringe alla fuga il dittatore Zine El Abidine Ben Ali e che si estende a molte piazze arabe del Nord Africa e del Medio Oriente, mettendo alla corda quasi tutti i regimi autoritari che duravano da decenni.

La contestazione non risparmia nessuno: sono costretti alla fuga Hosni Mubarak in Egitto e Ali Abdullah Saleh in Yemen, viene ucciso Gheddafi in Libia, sembra stia per capitolare Bashar al Assad in Siria. Anni dopo, arriva la ‘seconda primavera araba’: nel 2019 in Algeria la piazza costringe Bouteflika a gettare la spugna, il Sudan vede la fine dell’era di Omar al-Bashir, mentre in Libano (oggi in una crisi economica di dimensioni epocali) fa traboccare il vaso la tassa su  Whatsapp e in Iraq la protesta è contro disoccupazione, corruzione e mancanza di accesso ai servizi essenziali.

Nel 2010, la notizia del gesto di Mohamed Bouazizi si diffonde soprattutto su Twitter che diventa il detonatore di un diffuso malcontento popolare, soprattutto tra i giovani che chiedono “Pane, libertà e dignità”. Il presidente Zine El-Abidine Ben Ali, al governo dal 1987, quando è succeduto al padre della Tunisia moderna, Habib Bourguiba, è uno dei più moderati del mondo arabo, ma il Paese è lontano dagli standard democratici occidentali. La disoccupazione è in crescita e l’economia peggiora. Da Sidi Bouzid, le manifestazioni proseguono in altre città, piccole o grandi, grazie al passaparola via social network (con lo slogan “Il popolo vuole la caduta del regime”) fino a varcare i confini tunisini.

Si parla di “Rivoluzione dei gelsomini” sulla scia di quella delle “rose” in Georgia nel 2003, e dei “tulipani” in Kirghizistan nel 2005, ma l’incalzare degli eventi, in Egitto prima, in Libia e Siria poi, ha finito per lasciar cadere questa espressione giudicata riduttiva dagli stessi protagonisti della protesta a fronte della situazione drammatica nel paese. E’ il politologo Marc Lynch in un articolo sulla rivista americana Foreign Policy del 6 gennaio 2011 a usare per primo le parole “primavera araba”. Il riferimento è alla “primavera dei popoli” del 1848, e alla primavera di Praga del 1968, nella quale lo studente Jan Palach si diede fuoco. Nel gennaio 2011, il presidente Ben Ali in televisione legge il suo discorso alla nazione: invita alla calma, promette un cambiamento ma definisce i manifestanti più violenti “terroristi”. A migliaia scendono di nuovo in piazza, i sindacati proclamano lo sciopero generale. Ritratta in un nuovo discorso, ma ormai è tardi, la gente chiede le sue dimissioni. Il 14 gennaio 2011 quando viene annunciata la sua destituzione, lui si trova già in Arabia Saudita. 

Quattro anni dopo, nel 2015, il Premio Nobel per la pace va al Quartetto per il dialogo nazionale tunisino (formato dal potente sindacato dei lavoratori tunisini Ugtt, dalla Lega tunisina dei diritti dell’uomo, dall’Ordine nazionale degli Avvocati tunisini e dall’Unione dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato) per il  suo “contributo decisivo alla costruzione di una democrazia pluralistica”. Ma il 2015 è anche l’anno delle stragi al Museo del  Bardo, con quattro italiani tra le vittime, e sulla spiaggia di Susa. Primavere Arabe, da piazza Tarhir in Egitto alla Siria Quasi in contemporanea con la Tunisia, che con la sua transizione verso la democrazia, è considerata l’eccezione delle Primavere Arabe, si popolano anche le piazze dell’Egitto di Mubarak al potere dal 1981.

Il 25 gennaio 2011 piazza Tahrir al Cairo è piena di giovani che chiedono riforme. Il presidente nomina come suo vice l’ex capo dell’intelligence, Omar Sulaymān, ma gli scontri continuano. L’11 febbraio il vice presidente annuncia le dimissioni di Mubarak, morto lo scorso febbraio, mentre oltre un milione di persone continuano a manifestare. Nel 2012 l’avanzata dei Fratelli Musulmani porta alla presidenza Mohammed Morsi. Quest’ultimo è stato poi oggetto di un’altra ondata di proteste, con migliaia di cittadini che nel luglio del 2013 hanno invocato l’intervento dell’esercito contro di lui. Dal 2014 il Paese è retto dall’ex generale Al Sisi, il quale nelle elezioni ha sempre ottenuto oltre il 90% dei consensi. Le proteste del 2010 scoppiano anche in Algeria, in Marocco, in Arabia Saudita e Bahrein, e, seppure in minima parte in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti, in Iraq, in Libano e nella Giordania retta da Re Abdallah. Arrivano in Libia, in Siria e in Yemen. Nel suo ‘bilancio’ per il Council on Foreign Relations, Kali Robinson, scrive di “modesti risultati a livello politico, sociale ed economico per molti degli abitanti della regione” in cui ha soffiato il vento della Primavera Araba. E anche di “violenze orribili, sfollamenti di massa” in Libia, Siria e Yemen, un “peggioramento della repressione in aree della regione”, senza considerare che per quanto riguarda la libertà di stampa la situazione “è peggiore oggi rispetto agli anni precedenti le rivolte”.       

Siria In Siria, dove resta al potere Bashar al-Assad sostenuto da Iran e Russia, le inedite proteste antigovernative esplose nel marzo del 2011 sono sfociate in un sanguinoso conflitto. Damasco è stata in più occasioni accusata di aver usato armi chimiche. Ed è in Siria che il 29 luglio del 2013 è stato rapito il gesuita romano Paolo Dall’Oglio, del quale da allora non si hanno notizie. Era a Raqqa, quella che l’anno successivo sarebbe diventata la ‘capitale’ dell’autoproclamato  “califfato” di Abu Bakr al-Baghdadi. La ‘capitale’ dell’Isis in Siria e delle sue atrocità. Le stesse che hanno ferito l’Iraq e il cuore dell’Europa. Secondo l’Osservatorio siriano per i diritti umani, sono almeno 585mila le persone uccise  dall’inizio del conflitto e milioni risultano sfollate.​

Libia In Libia la rivolta parte dall’est, da Bengasi, il 15 febbraio del  2011 con proteste anti-governative per l’arresto di un avvocato per i  diritti umani. Viene chiesto il rilascio di tutti i prigionieri  politici e le dimissioni del colonnello Muammar Gheddafi. Da Bengasi, la rivolta si sposta a Tripoli, dove la repressione è sanguinosa. Il figlio di Gheddafi, Sayf al-Islam, in un discorso alla nazione dice che il regime è pronto a combattere ”fino all’ultimo proiettile”. Il 22 febbraio lo stesso Muammar Gheddafi chiama i rivoltosi traditori e invita i sostenitori a combattere. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu, l’Unione europea e gli Stati Uniti impongono sanzioni e la situazione libica viene riferita alla Corte penale internazionale, che emetterà un mandato di cattura per Gheddafi. La pressione diplomatica  internazionale non basta e si arriva all’intervento della Nato. Saranno i ribelli a catturare e uccidere Gheddafi a Sirte, sua città natale dove si era rifugiato, il 20 settembre del 2011.      

Yemen La rivoluzione in Yemen, detta anche Rivoluzione  della dignità, inizia in solidarietà con i manifestanti egiziani e contro il regime di Ali Abdullah Saleh a metà gennaio del 2011. Parte dalla capitale Sana’a e dalla città di Taiz e a niente serve il tentativo di mediazione del Consiglio di cooperazione del Golfo, respinto più volte da Saleh. Solo a giugno si avvia una transizione, dopo un attentato nel quale Saleh rimane gravemente ferito e che lo costringe al ricovero in Arabia Saudita. Rientrato in Yemen a settembre, verrà catturato e ucciso dagli Houthi con i quali aveva stretto un’alleanza, salvo poi voltargli le spalle.

Il Paese, uno dei più poveri al mondo, scivola così in una guerra civile che vedrà aumentare il potere dei miliziani sciiti Houthi, sostenuti dall’Iran, e l’influenza dell’Arabia Saudita, a sostegno del governo e a guida di una coalizione militare che colpirà indifferentemente civili e miliziani. Dieci anni dopo, una storia incompiuta “Delle Primavere Arabe mi è rimasta una storia che non è finita nel senso che non è fallita, non è compiuta e ha preso destini diversi nei vari Paesi. E mi è rimasto anche il privilegio di avere vissuto e raccontato qualcosa i cui esiti si vedranno tra molto tempo”. Lucia Goracci, che dieci anni fa seguì e raccontò le rivolte iniziate con la ‘Rivoluzione dei Gelsomini’ in Tunisia dice che “ci sono state delle autentiche Primavere come quelle del Cairo e di Tunisi e invece altre si sono rivelate delle rivolte, come ad esempio in Libia, che Primavera lo è stata ben poco: una guerra tra Bengasi e Tripoli, una spinta militare che senza l’appoggio della Nato non avrebbe portato all’esito che ha avuto. In Libia le forze della Nato hanno fatto vincere un campo che da solo non avrebbe vinto.

Quella rivolta di  popolo è diventata qualcos’altro e proprio per questo innestarsi di  agende politiche esterne è stata quella che ha avuto l’esito più  incompiuto”. A dieci anni da quegli eventi “c’è un processo in divenire che ha avuto battute d’arresto, come l’Egitto di al-Sisi che si configura più spietato e pericoloso di quello di Mubarak, ma c’è la Tunisia che promette ancora, c’è una Siria dove Assad ha vinto, ma sono rimaste le macerie fumanti e sarà difficile uscirne, e una Libia che ricorda  l’Afghanistan dei signori della guerra: un paese spezzato con due città ancora armate l’una contro l’altra”.

Occhi puntati su Algeria e Sudan La ‘data di nascita’ dell’hirak, come viene chiamato il movimento di proteste algerino, è il febbraio del 2019. E “la partita è ancora aperta”, dice ad Adnkronos International Michele  Brignone, direttore esecutivo della Fondazione Oasis e direttore della rivista Oasis. Il processo è stato congelato dalla pandemia di coronavirus. Ma è  “tuttora in corso” e, osserva, “il regime non ha molto da offrire non potendo più disporre dell’abbondante rendita petrolifera”. Qui, spiega, dopo Bouteflika (che ha gettato la spugna ad aprile 2019) “il sistema ha tentato come al solito di rigenerarsi attraverso qualche cambiamento cosmetico”, un cambiamento alla presidenza, “senza modificare radicalmente i suoi presupposti” e la “società ha mostrato fino a questo momento una certa compattezza e anche una certa  pazienza”. Una società che è “piuttosto matura, che ha già vissuto i  suoi drammi” e “sa che le rivoluzioni affrettate non portano bene”. 

E poi c’è il Sudan. L’era di Omar al-Bashir è finita nell’aprile dello scorso anno. “Oggi è un Paese in cui convivono due anime: un “fronte civile estremamente variegato e una componente militare”. Bisognerà vedere quale alla fine prevarrà. “Il percorso di transizione è relativamente ordinato e – aggiunge – se si affermasse un regime che magari non è una democrazia compiuta, ma un sistema politico relativamente libero in cui hanno diritto di esistere ed esprimersi forze politiche di natura diversa potremmo  iniziare a vedere qualche cambiamento nell’area”.  La Tunisia oggi Qualche mese fa è morta a 36 anni Lina Ben Mhenni, fra i simboli della rivoluzione, grazie al suo blog Tunisian Girl, in cui l’ha raccontata, schierandosi contro il regime di Ben Ali e contro la dittatura.

Nonostante botte e percosse, non si è mai fermata regalando al mondo il suo sguardo sulla lotta per la democrazia

Dieci anni dopo, la Tunisia è una democrazia. Ha resistito agli omicidi e agli attacchi terroristici e ha evitato in alcuni momenti  cruciali di cadere nel precipizio di un ritorno al governo autoritario, come è successo in Egitto, e della guerra civile, come in Siria, Yemen e Libia. I tunisini sono più liberi di criticare i loro leader rispetto a prima e le loro elezioni sono regolari. Eppure le persone sono infelici e disilluse, si uniscono a gruppi jihadisti in numeri in proporzione più alti al mondo e costituiscono  la maggioranza dei migranti diretti in Italia. La crescita economica si è più che dimezzata dal 2010 e la disoccupazione è endemica tra i giovani, che costituiscono l’85% dei senza lavoro. 

Bouazizi, l’uomo che dandosi fuoco innescò la protesta, non è più “un eroe”. Ha un boulevard a lui intitolato a Tunisi e nella sua città natale, Sidi Bouzid, è raffigurato in un gigantesco ritratto di fronte alla sede del governo locale, ma la sua famiglia si è trasferita in Canada e ha tagliato la maggior parte dei legami con la Tunisia. Il cugino ha detto che il loro cognome un tempo era un simbolo dell’orgoglio tunisino, mentre “ora la città di Sidi Bouzid e il cognome Bouazizi sembrano una maledizione”. Secondo un sondaggio, a 10 anni dalla ‘rivoluzione dei gelsomini’, solo il 27% dei tunisini sostiene che la sua vita sia migliorata ed il 22% ritiene che i bambini abbiano un futuro migliore rispetto al 2011, mentre per l’84% il gap tra ricchi e poveri è cresciuto. “Non è cambiato nulla“, ha denunciato Ashraf Hani, 35 anni, che dal suo chiosco dall’altra parte della strada vide Bouazizi prendere fuoco dopo che i suoi prodotti e il suo carrello erano stati confiscati. “Le cose stanno andando al peggio”.

Rai News

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