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Eritrea: donne senza diritti sotto la dittatura di Isaias Afewerki…

Costrette al servizio militare a tempo indeterminato e violentate nei centri d’addestramento: ecco cosa accade in Eritrea alle donne, che spesso decidono di emigrare. Un viaggio costellato di soprusi. E chi viene preso mentre se ne va viene arrestato per “abbandono illecito della propria patria”. E torturato in carcere.

di Alice Facchini

Violenze psicologiche, stupri, torture. La situazione delle donne in Eritrea è in continuo peggioramento sotto la dittatura di Isaias Afewerki, che dal 1993 paralizza il Paese. In particolare, il servizio militare a tempo indeterminato coinvolge persone di tutte le età, dalle ragazze di 15 anni fino a donne di 50. Nei centri di addestramento, alcune di loro subiscono torture e violazioni.

«Il servizio militare comincia con un periodo di addestramento», spiega Dania Avallone, presidente di Asper, associazione per la tutela dei diritti del popolo eritreo. «Ufficialmente dovrebbe durare due anni, al termine dei quali però le persone non vengono lasciate andare e vengono sfruttate per lavorare per lo stato senza uno stipendio: spesso costruiscono edifici o coltivano la terra. È manodopera a costo zero. Il servizio militare si trasforma così in uno stato di schiavitù». Le donne giovani spesso finiscono per diventare le schiave sessuali dei militari, quelle anziane le loro serve.

Le donne che lasciano l’Eritrea rischiano abusi e violenze
Vista la situazione all’interno del paese, molte donne cercano di emigrare. Durante il viaggio, si trovano in uno stato di maggiore vulnerabilità rispetto agli uomini: molte di loro subiscono abusi e a volte finiscono per portare avanti gravidanze indesiderate.

Quando partono, queste donne sono consapevoli dei rischi a cui vanno incontro, ma la loro situazione è talmente disperata che scelgono comunque di andarsene: per prevenire le conseguenze delle violenze, alcune di loro si fanno iniezioni di ormoni a lento rilascio, che le rendono sterili a volte per anni. Una volta arrivate in Europa, poi, alcune sono sfruttate o costrette a prostituirsi per ripagare il costo del viaggio.

«Ho visto tante donne eritree che arrivano in Italia con problematiche sanitarie, psicologiche e sociali di ogni genere», racconta durante il recente seminario “Eritrea è donna” la dottoressa Munira Alamin, medico di base che lavora a Bologna. «Vengono nel mio ambulatorio perché anch’io sono eritrea e parlo la loro lingua. I traumi derivano dal viaggio, che a volte dura interi anni, oppure dalle violenze subite all’interno del Paese».

Ci sono poi donne che tentano di emigrare ma non ci riescono, finendo per venire fermate alla frontiera e arrestate per “abbandono illecito della propria patria”. Nelle carceri la situazione è disumana, come denunciato anche da Amnesty International: le celle spesso si trovano sottoterra, al buio, sono sovraffollate e le porte vengono aperte una o due volte al mese. Anche lì, le donne spesso diventano vittima di torture: si va dall’essere lasciate appese a testa in giù all’essere seppellite nella sabbia, dalle bruciature sulla schiena agli stupri, fino anche all’elettroshock.

Il “viaggio immobile” delle donne eritree: le foto di Cinzia Canneri
Ci sono poi donne che partono sognando l’Europa, ma in Europa non arrivano, e così restano bloccate in Paesi di transito come l’Egitto e l’Etiopia. La fotografa Cinzia Canneri ha immortalato le loro vite in un reportage dal titolo “Il viaggio immobile delle donne”.

«Molte partono con il marito, poi gli uomini proseguono e loro restano bloccate in un paese dell’Africa, come in un limbo», dice. «Un viaggio di una donna può durare anche 20 anni».

Canneri racconta di queste “donne bloccate”, che ha conosciuto durante i suoi reportage. Come una ragazza che è stata ferita durante un’esercitazione e che per questo aveva grossi problemi a camminare, ma che non aveva comunque avuto l’esonero dal servizio militare ed era quindi scappata dal Paese, nella speranza di ricevere cure più adeguate.

O come una donna che durante il viaggio era stata colpita da una pallottola che le aveva perforato un rene, che dopo molti mesi era riuscita a ripartire e ora si trova negli Stati Uniti.

Ma è al Cairo che Canneri ha vissuto insieme alle donne le complesse emozioni che precedono l’imminente traversata del Mediterraneo: «Si sentiva la frenesia di arrivare in Europa. C’erano ragazze che andavano in piscina per iniziare a prendere confidenza con l’acqua. Non dimentichiamo che molte delle donne che affrontano il viaggio, il mare non l’hanno neanche mai visto».

Donne combattenti e l’indipendenza dall’Etiopia
La situazione oggi è molto diversa rispetto agli anni Novanta, quando in Eritrea era appena finita la guerra di indipendenza contro l’Etiopia e si respirava un’atmosfera di grande speranza. «In quegli anni le donne erano molto rispettate», ricorda Dania Avallone, che ha vissuto in Eritrea per 10 anni dal 1991.

«Durante la guerra, molte ragazze erano diventate combattenti: mangiavano, dormivano, vivevano insieme agli uomini. C’era grande emancipazione. Il loro contributo è stato fondamentale per la vittoria: ecco perché le donne venivano considerate moltissimo».

Anche oggi, quando si parla di scolarizzazione femminile o di rappresentanza di genere in politica, la situazione in Eritrea è comunque migliore rispetto ad altri paesi: «Le donne sono sempre state considerate una grande risorsa», continua Avallone. «Le bambine vanno a scuola come i bambini, agli sportelli degli uffici pubblici ci sono donne, così come in banca o alle poste. Ma parlare di rappresentanza di genere sembra paradossale in un paese dove i diritti umani sono costantemente violati: non ci sono elezioni, non c’è diritto di parola né manifestazione del pensiero».

Le violazioni dei diritti non coinvolgono solo le donne: a subire sono anche gli uomini, i bambini, gli anziani.

«Il vero problema è la dittatura: finché durerà, non cambierà niente. Tutti i problemi discendono dalla situazione politica. Ecco perché chiediamo al governo italiano di prendere una posizione chiara contro il regime di Afewerki», conclude Avallone.

www.osservatoriodiritti.it

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