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Giovani migranti, dall’Africa all’Europa passando per la Libia da soli

La Ong Sos Mediterranee pubblica un report sul percorso di molti bambini e adolescenti che il lasciano il loro Paese d’origine da soli. La psicologa: «Per sopravvivere molti di loro devono rimuovere il dolore»

di Marta Serafini

James, Esther, Sélim, Souleyman, Yasmine, Magdi, Youssouf, Abdo, Hamid e Yussif. Prima di essere «migranti», sono soprattutto adolescenti con storie particolari, spesso molto difficili. Sono esseri umani resi vulnerabili dall’età, dall’isolamento e dai pericoli del viaggio che li ha portati sulla rotta marittima migratoria più letale al mondo, il Mediterraneo centrale. Ed è alle loro storie e a quelle di tutti i giovani naufraghi che è dedicato il rapporto della Ong Sos Mediterranee pubblicato oggi in italiano con il titolo «Giovani Naufraghi, percorsi di minori salvati dalla Aquarius e dalla Ocean Viking», e che sarà presentato giovedì alle 18 sulla pagina Facebook della Ong, con Alessandro Porro, presidente di Sos Mediterranee Italia e Ivan Mei ,Child Protection Specialist di Unicef.

Quasi un quarto dei sopravvissuti soccorsi dalla Aquarius e dalla Ocean Viking, le navi della Ong, sono minori, la maggior parte dei quali viaggia da sola. Molti dei giovani adulti a bordo – come James, Souleyman o Magdi – hanno iniziato il loro viaggio da soli prima dei 18 anni ed hanno raggiunto la maggiore età lungo la strada. «Ho lasciato la mia famiglia in Ghana perché nella nostra tradizione una ragazza deve sposare il figlio dello zio paterno, ma io non volevo perché il mio desiderio è sempre stato di andare a scuola. Da noi, se ti sposi non puoi più studiare e nemmeno lavorare. Non è facile per una donna vivere in Ghana», racconta Esther, 17 anni. «Se non accetti le regole, la famiglia ti rigetta. Mia madre non voleva che fossi buttata per strada, ma mio padre mi diceva che se non avessi sposato l’uomo che aveva scelto per me, mi avrebbe uccisa. Mi ha picchiata con una cinghia, mi ha minacciata. Anche mio fratello ha cercato di convincermi, anche con le botte, ma sapevo di volere un’altra vita. Ho finalmente lasciato il mio Paese alla fine di gennaio 2017. Il viaggio dal Ghana alla Libia è durato tre settimane. Non pensavo che sarebbe stato così difficile», continua ancora il racconto. «Sono bambini e adolescenti che sono fuggiti dal loro Paese senza i genitori o gli anziani sono stati esposti, come gli adulti, a situazioni di violenza estremamente traumatiche nel loro Paese di origine e / o durante le traversate terrestri e marittime» spiega Marie Rajablat, infermiera nel settore psichiatrico e volontaria di Sos che ha partecipato a diverse missioni in mare a bordo dell’Aquarius nel 2017 e 2018 per raccogliere le testimonianze dei sopravvissuti e accompagnarli.

«In prigione, le persone venivano picchiate ogni giorno. Non è stato facile. Credo di aver passato quattro o cinque mesi lì. E un giorno, con alcuni amici, abbiamo deciso di scappare. Siamo fuggiti tutti in direzioni diverse. Non so dove siano ora. Ho corso, corso e corso, per molto tempo, finché non ce la facevo più. A un certo punto, non potevo più correre. Ero così stanco che sono crollato per terra e sono rimasto lì, in mezzo alla strada, per riposarmi. Non sapevo dove mi trovavo. Un libico mi ha visto, è venuto a chiedermi cosa mi stava succedendo. Non ho risposto. Ho fatto finta di essere morto, perché avevo paura. Ma poi si è offerto di darmi da mangiare e aiutarmi. Siamo andati a casa sua e ci sono rimasto per circa un anno e mezzo. Facevo le pulizie per lui. Non avevo il diritto di uscire di casa. Non ho mai potuto uscire di casa. Non sono uscito di casa per tutto questo tempo, mai, nemmeno una volta. Ero come uno schiavo per lui. Non so in quale città mi trovavo. Vedevo soltanto delle altre case attorno, fuori dalla finestra», è la testimonianza di Yussif, 17 anni dalla Somalia. Le persone tratte in salvo Sos, in generale, descrivono situazioni identiche: in Libia, i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati vengono arrestati dalle autorità o da uomini armati e poi rinchiusi in centri o luoghi di detenzione informali, dove sono costretti, sotto violenza, a pagare un riscatto in cambio del loro rilascio. Alcuni di questi campi sono centri gestiti dalle autorità governative, altri sono luoghi chiusi gestiti da milizie, gruppi armati o individui isolati. In molti di questi luoghi, la violenza fisica è un fatto quotidiano sia per i bambini che per gli adulti. I sopravvissuti descrivono pasti inadeguati, cattive condizioni igieniche, regolari abusi fisici, sessuali e verbali – compresa la tortura a scopo di estorsione – e il sovraffollamento, che incide gravemente sulla salute dei prigionieri. Molti hanno persino riferito di essere stati testimoni di esecuzioni. «Per sopravvivere giorno per giorno durante questo viaggio infernale, non devono pensare alla famiglia che si sono lasciati alle spalle, che si sono indebitati o che potrebbero essere minacciati per la loro partenza. Non devono pensare ai morti che si sono lasciati alle spalle: quelli del paese che sono morti di malattia o sono stati assassinati; quelli abbandonati nel deserto; quelli che vedevano giustiziati nei campi; chi è annegato … Soprattutto non deve lasciar emergere il dolore, il dolore», sottolinea ancora Rajablat,

Una volta arrivati in Europa, le sofferenze dei giovani migranti non finiscono. «Per strada, rinchiusi in squat violenti o riparati in luoghi estremamente precari, questi giovani non possono mettere radici o semplicemente proiettarsi da nessuna parte. Il loro ideale crolla insieme al loro essere. Poi inizia l’altro viaggio, questa volta una corsa tranquilla, quello del ricorso legale. Il tempo si allunga attorno all’unica attività: attendere la consegna della risposta istituzionale che riconosca – o meno – il diritto alla protezione. È uno stop forzato che favorisce l’emergere dei fantasmi del passato e dei sentimenti dolorosi: senso di colpa, abbandono, disprezzo di sé, solitudine, ecc», continua Rajablat. In questo quadro già complicato, la pandemia ha aggravato l’inerzia attraverso il contenimento, tempi di ascolto più lunghi o numerosi rinvii di date brevi. «Sono emerse idee inquietanti, disturbi d’ansia, concentrazione e disturbi del sonno, ritiro, isolamento relazionale e psicologico. Alcuni sono sopraffatti da una disorganizzazione del loro rapporto con il mondo. Possono sperimentare spersonalizzazione e / o delusioni. Spesso transitori negli adulti, questi disturbi possono durare più a lungo nei giovani. Da quando sono usciti di casa, questi bambini e adolescenti hanno barattato le loro certezze per le incertezze, le loro illusioni per la disillusione. Ovunque si trovino, sono relegati alla rovina dell’umanità».

Corriere della Sera

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