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Grecia, le gabbie dei piccoli profughi siriani…

A Moria nel campo greco i minori non accompagnati vivono reclusi. Il governo: «Accoglienza ottimale». E ai bambini invalidi, disabili, ammalati cronici è vietata l’uscita dal reticolato.

di Nello Scavo

L’Europa muore nel petto di Achmad. Basta vederla la lunga cicatrice sul torace: quel bimbo di sei anni non dovrebbe stare in una gabbia per profughi. L’Europa muore negli occhi neri di una bimba afghana: la misera protesi al piede la fa sembrare una bambola rotta che qui non camminerà né guarirà mai.

Nel girone dei bimbi migranti le autorità hanno deciso che andavano trattati come canaglie a cui sorridere al di qua delle inferriate. Dicono che è per la loro sicurezza che devono stare reclusi come le fiere allo zoo. C’è una grata perfino tra loro e il cielo, casomai si arrampicassero fuggendo tra i tetti arroventati dei container che alla stampa vengono raccontati come “residenze”, ma che in realtà sono celle di lamiera.

Nessun essere umano dovrebbe stare qui, che poi è Europa, mica la Libia.

Il campo di Moria è una collina che dall’alto discende verso i gironi dei dannati d’ogni guerra: Yemen, Afghanistan, Iraq, Siria, Palestina. Mani affettuose hanno verniciato con colori vividi le scatolette di ferro dentro a cui alloggiano adulti e bambini. Mani ipocrite hanno ordinato e pagato milioni di euro a un Paese in crisi perché tenesse al confino i migranti che salpano dalle vicine coste turche e poi si arrampicano sulle scogliere dell’arcipelago.
I cantori della favola di Stato sanno di dover mentire ai giornalisti: «In Grecia ci sono 70mila migranti ospitati – lo ha davvero detto incontrandoci un funzionario di Atene – in condizioni del tutto ottimali». Dove per ottimale si intende un solo medico per 4mila persone. Per non dire dei colloqui per esaminare le richieste d’asilo.

Mohamad, 24 anni, è arrivato dallo Yemen con la sua famiglia di otto persone un mese fa. La commissione per l’asilo non potrà ascoltarlo prima del 2021. Il campo di Moria è il più sorvegliato. Doppia rete metallica di quattro metri sovrastata dal filo spinato. Vigilanti che pattugliano all’esterno e militari con manganello in vista all’interno. Il blocco dei prigionieri ragazzini è guardato da polizia e operatori. Questi ultimi provano a stemperare la tensione. I pasti vengono distribuiti come nel più organizzato dei penitenziari: una gabbia alla volta.

Naturale che dopo qualche settimana osservando il cielo attraverso la trama del fil di ferro c’è chi provi a togliersi di mezzo, e chi cerca un anestetico ingurgitando pessimo liquore o dosi di droga pagate chissà come e, non di rado, al prezzo di promesse indecenti. Daniela e le altre volontarie di Sant’Egidio e della Caritas greca, intanto si affrettano a fotografare i documenti dei casi più difficili per i quali chiedere un ponte umanitario urgente verso altri Paesi Ue. Annotano, accarezzano, e sorridono. Ma si vede da lontano che il sorriso è solo un modo diverso di piangere.

«Mio figlio ha avuto un nuovo attacco di cuore l’altra sera», racconta il padre mostrando la cicatrice di un difficile intervento cardiologico. Il piccolo afghano, nato negli accampamenti iraniani dove la famiglia cercava un riparo per sfuggire all’età della pietra imposta dai talebani, è venuto al mondo con una grave malformazione cardiaca. La mamma, minuta e ingobbita dal peso di aver messo al mondo un maschio fragile, sparpaglia sulla ghiaia tutti i documenti dei dottori che lo hanno visitato e operato in qualche ospedale d’Oriente…

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