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Il Coronavirus è una condanna a morte per i palestinesi chiusi a Gaza.

di Umberto De Giovannangeli

Una prigione a cielo aperto, dove vivono nello spazio di soli 365 chilometri quadrati quasi 2 milioni di persone, il 56% minorenni. Isolata dal mondo, messa in ginocchio da un assedio che dura da tredici anni, con un sistema sanitario collassato, con il 97% dell’acqua non potabile. Nell’ “era” del Coronavirus la più grande preoccupazione tanto dell’autorità palestinese quanto di quella israeliana è la diffusione del virus nella Striscia di Gaza. «Se sei rinchiuso in una gabbia, sei protetto, ma, allo stesso tempo, sei anche molto più a rischio di essere gravemente colpito. Se la gente di Gaza non si sente bene, a qualcuno importa, non più che nella minima misura che in passato? Cambierà qualcosa per loro o semplicemente peggiorerà molto?

Con notevoli problemi economici a Gaza, il più alto tasso di disoccupazione nel mondo e la mancanza di forniture a causa delle restrizioni all’importazione di beni, è impossibile per le famiglie fare scorta di articoli e medicinali essenziali. Quelli con problemi di salute esistenti sono particolarmente vulnerabili alla malattia. Con la salute generale di molte persone a Gaza in costante calo a causa di un grave deficit sanitario e di un basso tenore di vita, la popolazione ne risentirebbe in modo univoco… Nel migliore dei casi, quando i pazienti a Gaza sono così malati da chiedere il permesso a Israele di partire attraverso il valico di Erez per cure mediche in Cisgiordania o in Israele, spesso non ricevono risposta o vengono respinti.

Nel caso di un focolaio di coronavirus a Gaza, la probabilità che vengano respinte le autorizzazioni di uscita per l’assistenza medica è quindi elevata, in particolare se Israele sta lottando contro il proprio focolaio…» scrive su Haaretz, il quotidiano progressista israeliano, Shannon Marre Torrens, avvocato internazionale e per i diritti umani, con una vasta esperienza in materia. Il titolo dell’articolo è, insieme, una drammatica constatazione e un disperato appello alla comunità internazionale: «Coronavirus è una condanna a morte per i Palestinesi ingabbiati a Gaza».

Nella prima fase della diffusione del virus molti articoli definivano Gaza il luogo più sicuro in cui trovarsi, elogiando i risvolti positivi che le restrizioni alla libertà di movimento per e dalla Striscia, imposta da 13 anni da Israele, avevano avuto sul contenimento del Covid-19. Ad un mese dall’inizio del contagio, le valutazioni sulla Striscia sono decisamente cambiate: adesso la diffusione del virus nell’enclave palestinese è descritta dalla Sicurezza israeliana come un “God-save-us scenario”.

Il 97% di tutta l’acqua di Gaza non è adatta al consumo umano, secondo l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), il che pone un interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza affrontare l’epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l’acqua pulita non è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza? Anche nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima qualità di quest’ultima.

Il gel disinfettante per le mani è sempre stato quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di settimane.

Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva, l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della popolazione gazawa, che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo. Al momento, 3.570 abitanti nei Territori occupati sono in quarantena, di cui 2.676 nella Striscia di Gaza, e tutti i palestinesi musulmani sono stati esortati a limitare le preghiere nelle proprie abitazioni, senza recarsi in moschea. Ma per gli “ingabbiati di Gaza” non può bastare per evitare la condanna a morte per virus.

Il Riformista

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