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Il Natale dei “disperati del Mediterraneo”. Per non dimenticare

Natale, giorno di festa. Ma non per i “disperati del Mediterraneo”. Il popolo dei senza voce. La notizia di nuove morti si perde tra i lockdown natalizi e i lamenti di chi rimpiange le tavolate di un tempo.

di Umberto De Giovannangeli

Natale, giorno di festa. Ma non per i “disperati del Mediterraneo”. Il popolo dei senza voce, dei senza diritti. Il popolo dei migranti. La notizia si perde tra i lockdown natalizi e i lamenti di chi rimpiange le tavolate di un tempo. La notizia dell’ennesima strage di migranti. Sono almeno 20 le persone morte in un naufragio al largo della costa di Sfax, in Tunisia.

Lo ha reso noto ieri un ufficiale della Guardia costiera, che ha recuperato 20 corpi di migranti che sognavano di raggiungere l’Italia e ha tratto in salvo cinque persone in condizioni gravi. Le vittime sono per lo più originarie dell’Africa subsahariana, come ha confermato all’agenzia Dpa un portavoce della Guardia costiera a Sfax, Ali al-Ayari. A bordo del barcone c’erano almeno 40 migranti e continuano le ricerche per i dispersi. Lo scorso 16 dicembre, le squadre di soccorso della Mezzaluna Rossa libica hanno recuperato i corpi di quattro bambini dopo il naufragio di una barca con a bordo 30 migranti al largo delle coste libiche. La notizia era stata data dal giornale The Libya Observer precisando che “che i bambini erano egiziani e che i loro corpi sono stati portati via dalle coste di Harsha e Matrad vicino alla città di Al-Zawiya”. La stessa fonte aveva aggiunto di essere a conoscenza “della scomparsa di due famiglie egiziane che vivono a Sabratha, tra cui una bambina di cinque anni e tre ragazzi tra i sette e i dieci anni”.

La rotta tunisina

Arrivano nelle aree di Porto Empedocle, Sciacca, Licata, nell’Agrigentino, su barconi di legno di 10-12 metri, che spesso vengono anche abbandonati. In alcuni casi gli occupanti delle imbarcazioni riescono a scendere e far perdere le loro tracce, in altri gli uomini della Guardia di Finanza o della Capitaneria di porto li hanno individuati. Più a ovest, verso Trapani o Mazzara, gli immigrati sbarcano, invece, da gommoni che portano dalle 20 alle 40 persone alla volta. In alcuni casi, assieme agli esseri umani, sono stati recuperati anche carichi di sigarette o stupefacenti. E’ la rotta tunisina, che attraversa il confine tra Tunisia e Libia. A confermarlo è Reem Bouarrouj, responsabile immigrazione di Ftdes, “Tra gli immigrati in Libia – dice – sta iniziando a circolare la voce. Sanno che la Guardia Costiera e le milizie impediscono le partenze dalla costa e così puntano alla Tunisia”. Nell’area di confine tra Libia e Tunisia vige, ormai da tempo, un patto d’azione tra trafficanti di esseri umani e miliziani dell’Isis che, in rotta da Siria e Iraq, hanno fatto di quest’area frontaliera la trincea avanzata dello Stato islamico nel Nordafrica.

Il monitoraggio continuo della direzione centrale Polizia delle frontiere e immigrazione, la Guardia di Finanza, la Guardia Costiera e i servizi di informazione e sicurezza, osserva in particolare natanti in legno, di circa 10 metri, in partenza da Sfax, Biserta, Monastir, Zarzis e le isole Kerkennah. Raggiungono Lampedusa o Pantelleria e le coste occidentali della Sicilia, soprattutto agrigentine e trapanesi. All’arrivo, sodali dei trafficanti danno generi di conforto agli sbarcati e nascondono le imbarcazioni, usate anche per il trasporto di hashish e sigarette di contrabbando. Spesso i tunisini intercettati dalle forze di polizia hanno documenti falsi. Non pochi di loro abbandonano i centri di accoglienza, anche quelli in quarantena. Il problema più critico sono i ripetuti sbarchi occulti, non intercettati dalla pubblica sicurezza. Senza, dunque, identificazione e valutazione del profilo di rischio dei migranti.

Imen Ben Mohamed è una giovane e combattiva deputata del partito islamista “Ennahda”: “La lotta contro il traffico di esseri umani – dice a Globalist la parlamentare tunisina, eletta nella circoscrizione estera in Italia – è una delle nostre priorità. Non è facile, perché le organizzazioni criminali sono potenti, hanno mezzi e denaro per reclutare giovani senza lavoro. Con l’Italia, la vostra Ambasciata, gli imprenditori che hanno investito nel mio Paese, le ong che lavorano per aiutarci a migliorare le condizioni di vita del popolo tunisino, c’è un rapporto fattivo, uno spirito straordinario di cooperazione che spero possa essere rafforzato nel 2021”.

I senza futuro

Annota Paolo Howard in un documentato report su Affari Italiani: “Considerare la rotta tunisina quale mera alternativa a quella libica appare riduttivo. Sono i migranti tunisini a imbarcarsi dai porti di Sfax e Kerkenna, raramente gli stranieri. Sebbene negli ultimi mesi il flusso di migranti sub sahariani lungo il confine tunisino-libico sia cresciuto (migranti che vengono in Tunisia per trovare lavoro e raccogliere i soldi per pagare i passeur), ad oggi i protagonisti della rotta restano i giovani tunisini che, stretti nella morsa di una economia impoverita e di un clima politico asfissiante, fuggono a bordo dei social media prima ancora che delle imbarcazioni di fortuna”.

Nell’ultimo anno il Pil è cresciuto meno dell’1 per cento, la disoccupazione è schizzata invece al 15 per cento (anche se secondo chi protesta la percentuale è almeno il doppio). I disoccupati sono oltre 600 mila, di cui più di un terzo in possesso di diploma di istruzione superiore. Le conquiste democratiche, avviate dopo la fuga dell’ex presidente Zine El Abidine Ben Ali, il 14 gennaio 2011, non sono state accompagnate da una crescita economica in cui tutti speravano. Secondo l’ex ministro dell’Economia, Houcine Dimassi, “tutti i numeri indicano un netto peggioramento della situazione economica rispetto al 2010-2011”, quando Tunisi registrava un aumento del Pil tra il 4 e il 5 per cento. Una crisi economica drammatica, che non risparmia i beni primari: tutto è caro, la carne rossa costa 25 dinari al chilo, in tavola arriva se va bene una volta al mese. Senza contare che bisogna pagare l’affitto, le bollette, l’assistenza sanitaria, che non è più gratuita per nessuno, neanche per chi ne avrebbe diritto. Un dramma per un Paese che ha la disoccupazione al 30% e ben poche speranze di mobilità sociale. E per ridare speranza non basta la nuova carta costituzionale, che pure ha rappresentato un importante passo in avanti quanto al consolidamento dei diritti civili, politici, di parità di genere. Secondo Le Courrier International la nuova Costituzione tunisina rappresenta “un indiscutibile successo, ma nulla è stato fatto per migliorare la vita quotidiana dei cittadini, soprattutto in campo socio-economico. Le autorità continuano a gestire questo settore vitale con un approccio antiquato che è stato all’origine stessa della rivoluzione. Nulla è stato fatto per dare speranza ai giovani che languono in condizioni di povertà, disoccupazione e frustrazione.

Nel Paese maghrebino, specialmente nelle regioni dell’entroterra e del sud del paese, dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 35%, la crisi sanitaria ha contribuito a peggiorare notevolmente condizioni di vita già estremamente precarie. Nella regione di Tataouine (Sahara tunisino), tra le più povere del Paese, dopo il lockdown i giovani disoccupati hanno ricominciato a protestare chiedendo al governo l’applicazione di un accordo firmato nel 2017 che avrebbe dovuto garantire la creazione di nuovi posti di lavoro grazie al coinvolgimento delle imprese petrolifere che operano nella zona, tra cui l’italiana Enia cui viene chiesto di procedere al reclutamento di manodopera locale. Cosa che non è ancora accaduta. Oltre ai giornalieri e al settore dell’economia informale, 400mila lavoratori della zona costiera quest’anno resteranno a casa: il settore del turismo, il 20% dell’economia del Paese, è in piena crisi a causa della chiusura delle frontiere. La situazione rischia di precipitare, stando alle previsioni della Banca Centrale Tunisina: il Pil si ridurrà del 4,3%, e ciò comporterà un aumento della disoccupazione di almeno 6 punti percentuali. Dal 15% al 21% della popolazione totale senza lavoro in pochi mesi. In cambio di una serie di riforme, il Fondo monetario internazionale ha concesso un prestito d’urgenza alla Tunisia di 745 milioni di dollari per “attenuare le ripercussioni della crisi sul piano umanitario, sociale ed economico in un contesto più incerto che mai” pur prevedendo la “peggiore recessione dai tempi dell’indipendenza nel 1956”.

Parlano i Nobel tunisini

“La grande maggioranza del popolo tunisino – dice a Globalist Abdessatar Ben Moussa, avvocato, presidente della Lega per i diritti umani, uno dei membri del Quartetto per il dialogo nazionale tunisino, insignito, nel 2015, del Premio Nobel per la Pace – sostiene il processo democratico. Si tratta di un patrimonio di credibilità che non va disperso. Ma i rischi sono tanti, legati soprattutto alla situazione socio-economica. La difesa dei diritti umani è importante ma lo è altrettanto il rafforzamento dei diritti sociali. La democrazia si rafforza se si coniuga alla crescita economica, alla giustizia sociale, a realizzare prospettive di lavoro per i giovani. Non è un caso che i terroristi dell’Isis abbiano puntato a colpire il turismo, una delle fonti di entrata più importanti per la Tunisia. Oggi i terroristi reclutano giovani emarginati non offrendo loro il miraggio del “Califfato ma un salario per combattere la Jihad. Per questo è fondamentale che l’Europa investa nella cooperazione con la Tunisia e più in generale con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Per l’Europa non sarebbe un atto di generosità ma un investimento a rendere sul piano della stabilità e della sicurezza. Un investimento sul futuro”.

I “gelsomini” non bastano per sfamare un popolo. I diritti non si mangiano. Una “rivoluzione” non si consolida se non riesce a dare un tetto, un lavoro, un futuro ad un popolo giovane. A nove anni dalla revolution yasmine, la Tunisia si riscopre inquieta, pervasa da un malessere sociale che investe tutti i settori della popolazione. Diplomati, laureati, professionisti: la protesta parte da lì. E dai ragazzi: un popolo sotto i 35 anni che si trova governato da una classe politica di ottuagenari. La loro è anche una rivolta generazionale.

“Quello compiuto in questi nove anni – rimarca Houcine Abassi, già Segretario generale dell’Ugtt (Union générale tunisienne du travail) anche lui Premio Nobel per la Pace nel 2015 come membro del Quartetto per il dialogo – non è stato un percorso lineare, la transizione democratica è ancora in atto e non potrà dirsi conclusa se non affronta la grande questione che resta irrisolta ed anzi tende ad aggravarsi”. E quella “grande questione si chiama malessere sociale. L’ex capo del sindacato tunisino ne è assolutamente convinto: “La libertà – sostiene – non può dirsi realizzata se non hai un lavoro, se i giovani non possono costruire il loro futuro, avere una casa, diventare autonomi. In Tunisia, la rivoluzione del 2011 ha abbattuto un regime corrotto, la transizione ha consolidato le istituzioni, abbiamo una Costituzione tra le più avanzate in questa parte di mondo, ma non basta, non può bastare. Perché sul piano sociale il bilancio è negativo: il tasso di disoccupazione è aumentato del 15% a livello nazionale e raggiunto il 25% nelle regioni interne. Quello tunisino è un popolo giovane, e se ai giovani non dai una prospettiva concreta di realizzazione, il futuro è a rischio”.

Blocco navale

Intanto, il Viminale sta studiando una sorta di blocco navale, autorizzato dal Governo tunisino: “Non si tratta di un’azione deliberata che sarebbe un atto di guerra, bensì di un controllo effettuato fuori dalle acque territoriali tunisine con i nostri mezzi militari che mira ad avvertire le autorità della partenza di sbarchi illegali dal Paese”, spiega la ministra dell’Interno, Luciana Lamorgese.

Ma non c’è blocco che tenga che possa fermare una “marea umana”. Senza giustizia, senza lavoro, senza futuro. La “rotta tunisina” è l’ultima chance per i “disperati del Mediterraneo”.

Globalist

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