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In Burkina Faso, il Paese del terrore

di Giovanni Porzio

Stragi nei villaggi. Scuole chiuse. Un milione di disperati in fuga. Siamo stati nel cuore dell’avanzata jihadista in Africa. Che ormai sembra davvero inarrestabile. Reportage. In fuga dai villaggi in fiamme, dai cadaveri carbonizzati, dai proiettili di assassini senza volto. Arrivano sfiniti dopo giorni di cammino sui sentieri della savana, donne con i figli al collo, vecchi che trasportano quel che resta di una vita: una pentola, un catino di plastica, una coperta. “Sono piombati su Zimbeoga alle 8 del mattino” racconta Fatimata Soudri, madre di tre bambini. “Una quarantina di uomini armati di mitra e di machete, in sella alle moto, la faccia nascosta dal turbante. Sparavano senza motivo, gridavano Allahu akbar! ma hanno attaccato la moschea e ucciso l’imam. Hanno incendiato le capanne e il raccolto di miglio, hanno rubato il bestiame. Non abbiamo più niente e nessun posto dove andare”.

Sono più di un milione gli sfollati del Burkina Faso. Gruppi jihadisti affiliati ad Al Qaeda e allo Stato islamico, milizie etniche e bande criminali dedite al traffico di armi, droga e migranti massacrano e terrorizzano la popolazione civile. Dal gennaio 2016, quando un commando di Al Qaeda nel Maghreb islamico uccise trenta persone all’hotel Splendid e al ristorante Cappuccino nel centro della capitale Ouagadougou, gli attacchi si sono moltiplicati: più di mille nel 2020 con oltre duemila vittime. Migliaia di scuole hanno dovuto chiudere lasciando a casa centinaia di migliaia di studenti.

L’esercito, male equipaggiato e accusato di efferate violazioni dei diritti umani, sta perdendo il controllo di ampie zone del territorio: nelle votazioni dello scorso 22 novembre, che hanno riconfermato alla presidenza Roch Kaboré, quasi mezzo milione di elettori non ha potuto registrarsi.

In queste terre di nessuno i fondamentalisti islamici guadagnano consensi con i metodi già sperimentati dai taliban in Afghanistan e dall’Isis in Siria: terrore e persuasione. Applicano rigidamente la sharia, condannano a morte o a dure pene corporali chi fuma, beve alcolici, ascolta musica, si prostituisce; ma garantiscono la sicurezza e i servizi sociali che lo Stato non è in grado di fornire: scuole coraniche, medicine e un salario mensile ai giovani che imbracciano il Kalashnikov.

L’ex Alto Volta, ribattezzato Burkina Faso, la “Terra degli uomini integri”, dal leader rivoluzionario Thomas Sankara assassinato nel 1987, è oggi il principale teatro operativo dei gruppi jihadisti più attivi nella fascia sub-sahariana: lo Stato Islamico nel Grande Sahara dell’emiro Abu Walid al-Sahrawi e i qaedisti riuniti nel Gruppo di sostegno all’Islam e ai Musulmani guidato dal capo tuareg Iyad Ag Ghali, che puntano ad aprire un corridoio per espandersi verso i Paesi della costa atlantica. Da una saldatura con i nigeriani di Boko Haram e dello Stato islamico in Africa occidentale rischierebbe di prendere corpo un nuovo Califfato integralista con ramificazioni dal Mediterraneo al Golfo di Guinea.

Il conflitto nel Sahel, da tempo latente, esplose dopo la caduta del regime di Gheddafi, quando nell’autunno 2011 centinaia di combattenti tuareg arruolati nella Legione araba del Colonnello libico si riversarono nel Nord del Mali in convogli carichi di mitragliatrici, esplosivi, lanciagranate: fecero causa comune con i jihadisti algerini e in poche settimane conquistarono Gao e Timbuctu, liberate solo in seguito al massiccio intervento militare della Francia. L’Occidente, allarmato dalla crescente instabilità in un’area ricca di uranio, oro e idrocarburi, ha dispiegato nei Paesi del Sahel un nutrito contingente multinazionale: cinquemila francesi inquadrati nell’operazione Barkhane, centinaia di forze speciali europee (operazione Takuba) e americane, sedicimila caschi blu africani, oltre a droni, sistemi di sorveglianza satellitare, addestratori, aerei e mezzi blindati. Ma la soluzione militare, come in Afghanistan e in Iraq, si è rivelata una chimera. I focolai insurrezionali, gli eccidi, le imboscate, gli attentati e i rapimenti sono in aumento in tutta la regione.

La fragilità delle istituzioni, la povertà, la disoccupazione giovanile, le ingiustizie sociali, la corruzione, la carenza d’infrastrutture e la porosità dei confini offrono agli adepti della guerra santa le condizioni ideali per espandersi. E in Burkina Faso la crisi è esacerbata da potenti fattori endogeni: la recrudescenza dei conflitti agropastorali, amplificata dal cambiamento climatico e dalla contrazione delle terre arabili; la proliferazione delle milizie etniche; l’insorgenza di movimenti integralisti autoctoni; l’assenza dello Stato nelle aree più remote.

A bordo di una Toyota blindata dell’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati posso spingermi a nord fino ai limiti della zone rouge, il triangolo della morte dove s’incrociano le frontiere di Mali, Niger e Burkina. A Barsalogho, polveroso agglomerato di casupole di fango spazzate dall’harmattan, il vento del deserto, gli sfollati sono sessantamila: ma i Peul, allevatori di bestiame, vivono segregati dagli altri profughi, agricoltori Mossi, l’etnia maggioritaria.

I jihadisti hanno attaccato il mio villaggio, 15 chilometri da qui, e hanno trucidato tre dei miei figli” racconta Bamogo Tibsiguia, 64 anni. “Parlavano il foulfouldé, la lingua dei pastori”. I Peul vivono nel terrore: “Solo noi donne usciamo dal campo per raccogliere legna e toéga, le foglie di baobab per la minestra” dice Saudata Diallo. “Alcune ragazze sono state aggredite e stuprate. Molti Peul sono scomparsi, uccisi dai soldati e dai koglweogo”.

La scorsa estate, nei pressi della città di Djibo, sono state identificate due fosse comuni con i corpi di 180 “terroristi. I koglweogo, “guardiani della boscaglia ” in mooré, l’idioma dei Mossi, sono le temibili milizie di autodifesa, legalizzate nel gennaio 2020: cinquantamila uomini armati di fucili da caccia e di coltelli che dovrebbero garantire la sicurezza nelle zone rurali dove militari e poliziotti non sono presenti. Ma sono implicati, assieme ai reparti speciali dell’esercito, in numerosi episodi di giustizia sommaria, rappresaglie e massacri della minoranza Peul, che cerca di conseguenza la protezione, e la vendetta, dei miliziani islamisti.

Oltre la cittadina di Dori non è possibile andare. Le strade sono minate. L’intera provincia fino ai confini maliani e nigerini è controllata dai gruppi jihadisti. Il campo profughi dell’Acnur, evacuato dopo avere subito quattro attacchi, si sta lentamente ripopolando, ma la situazione resta precaria. “Le zone sicure si stanno riducendo” spiegano i responsabili del campo. “Non siamo più in grado di distribuire aiuti nei villaggi. Ogni giorno arrivano donne disperate e bambini traumatizzati: hanno visto mariti e padri uccisi davanti ai loro occhi”. In ottobre un convoglio che trasportava sfollati è caduto in un’imboscata: 25 uomini sono stati trucidati.

Nel mirino dei commando jihadisti sono finiti anche i cristiani, il 2 per cento dei venti milioni di burkinabè: ottanta vittime in due anni, soprattutto nelle diocesi di Dori, Kaya e Ouahigouya. “Se nessuno interviene, i cristiani sono destinati a scomparire” afferma il vescovo di Dori Laurent Dabiré, che ha dovuto chiudere tre delle sei parrocchie della diocesi e ospita i fedeli sfollati nell’edificio della cattedrale. “Il governo accusa i terroristi stranieri, ma non è così: gli aggressori sono giovani di questo Paese”.

La regione a nord e a ovest di Dori è la culla del movimento jihadista burkinabè. Nel 2009 un imam radicale di Djibo, Ibrahim Malam Dicko, cominciò a predicare denunciando la corruzione dilagante, i soprusi dell’esercito e la marginalizzazione dei Peul. Nel 2013 fu arrestato in Mali dai militari francesi e scontò due anni di carcere a Bamako. Tornato in Burkina, fondò Ansarul Islam, i “Difensori dell’Islam”, e diede inizio all’insurrezione armata con assalti a caserme e stazioni della polizia. Dopo la sua morte, nel maggio 2017, è stato rimpiazzato dal fratello Jafar, che ha rafforzato i legami con i qaedisti di Iyad Ag Ghali.

Inizialmente circoscritti alle regioni settentrionali, gli attacchi si sono propagati e intensificati in tutte le zone frontaliere del Paese, con sempre più frequenti incursioni anche al sud e in prossimità della capitale. A Nouna, 90 chilometri dal confine maliano, cinque ore di auto a ovest di Ouagadougou, l’ong italiana Intersos assiste centinaia di sfollati accampati in tende di fortuna e nei ruderi di fatiscenti edifici: costruisce latrine dove mancano le fognature, allestisce spazi educativi dove mancano le scuole, distribuisce kit igienici e soldi per le medicine. È una provincia florida, irrigata dal fiume Mouhoun: mais, cotone, manghi, pecore e vacche. Ma le condizioni dei profughi sono miserande: ragazzini malnutriti costretti a mendicare, bambini che vomitano per la malaria, famiglie con quattro mogli e venti figli ammassate in ricoveri di plastica e lamiera, donne che cucinano radici ed erbe su fuochi di sterpi.

Moussa, 32 anni, parla a bassa voce. È un cacciatore Dozo, fiero di appartenere alla milizia popolare: “Siamo abituati a combattere. Gli amuleti ci proteggono dalle pallottole e ci rendono invisibili. Eravamo una cinquantina a difendere Kombori con i fucili calibro 12. Loro erano più di trecento, armati di kalashnikov, mitragliatrici e mortai. Abbiamo resistito un’ora, abbastanza per lasciar fuggire i quattromila abitanti del villaggio”.

Mahmoudou Gana era consigliere al municipio di Kombori: “Hanno bruciato tutto, saccheggiato l’ospedale, distrutto le case. Ora controllano tutta l’area: almeno nove dei 17 villaggi della municipalità. Una parte della popolazione collabora con i jihadisti, per soldi, per paura, per ignoranza o perché è stata indottrinata. Amadou Koufa, il leader del Fronte di Macina, è molto influente in questa zona: ha ovunque infiltrati e informatori, la gente lo teme e lo rispetta”.

Tolofudie Bourema è un miracolato. La sera del 3 settembre era nella sua casa in attesa di uscire per andare alla moschea. “All’improvviso” racconta “cinque uomini armati con in mano delle torce sono entrati e mi hanno sparato gridando Allahu akbar! Mi hanno ferito ma sono ancora vivo. Qualcuno mi aveva venduto ai terroristi perché ero uno dei notabili del villaggio”.

Per sopravvivere, molti sfollati, bambini e adolescenti, vanno alla ricerca dell’oro, scavando giorno e notte profondi tunnel nel terreno argilloso: poche pagliuzze estratte a fatica dalle pietre macinate e dilavate, addensate dal mercurio in minuscole pepite, possono valere un pasto per tutta la famiglia. Le miniere informali sono dappertutto, lungo le strade, nei campi profughi, nella boscaglia. Ma anche su queste i gruppi armati hanno allungato i tentacoli, convertendole in una lucrosa fonte di finanziamento. I jihadisti acquartierati nelle foreste del parco nazionale W, a cavallo del Niger e del Benin, si sono impadroniti delle zone aurifere del sudest. “Sono riusciti a convincere la gente che stare con loro conviene” spiega l’analista Mahmadou Sawadogo. “Hanno cacciato i ranger dai parchi e dalle riserve protette, aprendole ai cercatori d’oro, ai bracconieri, ai trafficanti di droga, di carburante, di armi e di legname”.

In Burkina Faso, Mali e Niger le miniere informali producono circa cinquanta tonnellate di oro all’anno, contrabbandato soprattutto in Togo, principale snodo verso il mercato degli Emirati Arabi Uniti: un business da due miliardi di dollari, in gran parte gestito dai gruppi jihadisti, che non hanno risparmiato sanguinosi attacchi alle installazioni e al personale delle multinazionali minerarie nel Sahel. Nel Burkina le concessioni accordate a società straniere, come la canadese Semafo e la Nordgold del magnate russo dell’acciaio Alexey Mordashov, non si traducono in vantaggi concreti per la popolazione rurale. Alimentano piuttosto il fuoco della propaganda integralista: dai pulpiti delle moschee e di internet gli imam maledicono il neocolonialismo che depreda le risorse nazionali. “I militari francesi bombardano dal cielo e se ne vanno” dice sconsolato Mahmadou Sawadogo. “Non hanno la minima idea di quello che sta succedendo in questo Paese”.

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