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La storia di Ahmed e Iyad: così si muore nella Palestina occupata

Violazioni dei diritti umani dei palestinesi

Non erano dei militanti palestinesi, non facevano parte di alcuna fazione della resistenza. La loro colpa? Essere palestinesi. E hanno pagato questa “colpa” con la vita.

di Umberto De Giovannangeli

Questa è la storia di Ahmed e di Iyad. E di ciò che significa vivere e morire sotto occupazione. Ahmed e Iyad non erano dei militanti palestinesi, non facevano parte di alcuna fazione della resistenza. La loro colpa? Essere palestinesi. E hanno pagato questa “colpa” con la vita. Nel giorno in cui in tante piazze italiane si manifesta contro il piano di annessione Trump-Netanyahu del 30% della Cisgiordania, Globalist li racconta. Per onorarne la loro memoria e per non dimenticare

La storia di Ahmed

A narrarla, in uno struggente articolo per Haaretz. che Globalist

Pubblica in Italia, è Dalal Iriqat, vice presidente per le relazioni internazionali dell’Università Araboamericana in Palestina e editorialista del giornale Al Quds. La forza dello scritto è nei sentimenti che lo animano e nelle emozioni che colgono chi lo legge. Dalal racconta il suo “amato cuginetto”. E in questo racconto c’è la tragedia di un popolo.

O madre del martire, vorrei che fosse mia madre al posto tuo!

Questa era la canzone dei giovani che manifestavano per le strade di Abu Dis fino a raggiungere la casa del martire. Il mio cuginetto, il bel ventiseienne, il fidanzato, il fratello e il figlio, Ahmed Mustafa Erekat.
Fu giustiziato dagli israeliani dopo che perse il controllo della sua auto e si schiantò contro un posto di blocco. Lo lasciarono sanguinare per più di un’ora. L’esercito di occupazione ha impedito all’ambulanza di raggiungerlo, ha impedito ai civili di avvicinarsi per consolarlo, ha impedito ai testimoni di registrare i dettagli del crimine. Quando mio zio arrivò alla barriera del posto di blocco, vide suo figlio Ahmed contorcersi a terra.

Chiamò i soldati, li supplicò, gridò loro aiuto, ma essi non offrirono alcuna pietà. Rimasero a guardare mentre la linfa vitale di Ahmed lo lasciava. E ucciderlo non è stato sufficiente: le autorità penali israeliane non erano soddisfatte, così hanno arrestato il cadavere di Ahmed. Noi palestinesi siamo abituati ai tentativi di Israele di incolpare la vittima, di far ricadere su di noi la colpa di ogni esecuzione sul campo. Nel caso di Ahmed, abbiamo visto la stessa ingiustizia disumana, lo stesso sforzo di umiliarci, con l’invenzione di un racconto per coinvolgere Ahmed, per renderlo responsabile del suo stesso omicidio.

Ahmed era un ragazzo normale. Gli piaceva tenersi in forma. Aveva la sua azienda che stampava disegni grafici sulle magliette. Ed era un giovane innamorato. Doveva sposarsi alla fine di maggio, ma il matrimonio è stato ritardato a causa della pandemia di coronavirus. La sua fidanzata ha parlato della nuova casa che stavano preparando, dei preparativi del matrimonio, del vestito, dei gioielli per le feste, dei mobili che avevano acquistato. Ahmed non ha attaccato nessuno. Questa è la vera storia della sua vita. Non lasciate che l’occupazione riscriva la sua storia. Oggi, il giorno dopo, era il giorno del matrimonio di Iman, la sorellina di Ahmed. Ogni scena è impressa nella mia mente, tutto il dolore. Ero lì in piedi accanto alle sue sorelle traumatizzate. I miei occhi scrutavano i dettagli della casa, decorati con tanta attesa, gioia e cura: dai pizzi che ornavano le ringhiere, alle sedie che riempivano la casa in preparazione per gli ospiti, alla cioccolata splendidamente disposta, alle bomboniere e al caffè: tutto era pronto per il ricevimento pre-matrimoniale di Iman. Ahmed non è il primo membro che la famiglia Erekat ha perso a causa dell’occupazione di Israele, e temo che non sarà l’ultimo martire tra il popolo palestinese.

Spero che coloro che vogliono veramente consolare la famiglia contribuiscano a condividere la verità e a smascherare l’occupazione. Alzate la voce per chiedere a Israele di rilasciare il filmato completo delle dieci telecamere di sicurezza che hanno registrato l’ultima ora di Ahmed sulla terra. Nella Palestina occupata non c’è diritto alla vita, non c’è diritto alla gioia, non c’è diritto nemmeno a dire addio. I giovani palestinesi sono solo numeri, non individui, e il corpo di Ahmed si è ora unito a quella fredda verifica. La nostra lotta è per fermare l’uccisione del nostro popolo. Quando gridiamo aiuto, qualcuno ci ascolterà? Le vite dei palestinesi sono davvero importanti?”.

La storia di Iyad

Il giovane Iyad era autistico e viveva nel quartiere Wadi Joz a Gerusalemme Est. Lo scorso sabato mattina si stava dirigendo verso la città vecchia per recarsi al Centro Elwyn, un centro specializzato nella cura dei disabili, quando due agenti di polizia al confine israeliano, lo hanno ucciso sparandogli dieci proiettili perché ritenevano che fosse armato, accusa rivelatasi falsa.

Una morte quella di Iyad Hallak, che va ad allungare la lista di persone con handicap mentali vittime delle forze israeliane: Mohammad Jabari a marzo 2018, Mohammad Habali a dicembre 2018 o Arif Jaradat a giugno 2016.

I due ufficiali coinvolti nel caso sono stati arrestati, uno di loro è stato rilasciato e il secondo è agli arresti domiciliari.

Agli investigatori uno di loro ha riferito di essere stato chiamato per intervenire a un allarme riguardante “un terrorista armato che si dirigeva verso la Porta dei Leoni”. La polizia di frontiera, nota come Magav, è un’unità specializzata che assiste l’esercito israeliano in alcune operazioni di polizia e di lotta al terrorismo, specialmente a Gerusalemme e nei Territori occupati della Cisgiordania. Questa polizia è nota per la brutalità dei suoi metodi di intervento.

Il funerale di Iyad Hallak si è svolto domenica sera sotto la sorveglianza della polizia, ed è stato rinviato dalle autorità a tarda ora per evitare assembramenti che avrebbero potuto sfociare in una escalation di violenza. La sera stessa infatti, la polizia ha disperso con la forza dozzine di palestinesi che durante il funerale, si erano radunati per protestare contro l’omicidio del ragazzo all’ingresso della Città Vecchia di Gerusalemme, fuori dalla Porta di Damasco.

La morte del giovane palestinese ha provocato reazioni sui social e ha mobilitato centinaia di giovani israeliani e palestinesi, a partire da sabato scorso, nelle strade di Tel Aviv e a Gerusalemme con slogan come “Justice for Iyad, Justice for George,” o “Palestinian Lives Matter”, in riferimento alla campagna per la difesa dei diritti degli afroamericani “Black Lives Matter “.

Un parallelo quello tra le due vittime che oltre a denunciare le violenze della polizia e l’ingiustizia, mira a evidenziare l’idea che nascere neri o palestinesi equivalga a una “condanna a morte”. “La violenza della polizia a Gerusalemme Est è una politica, come la politica in atto contro i neri negli Stati Uniti”, ha dichiarato Shahaf Weisbein, uno degli organizzatori della manifestazione di Gerusalemme, prima di aggiungere che “la violenza della polizia e la politica di occupazione contro i palestinesi sono diventate una triste routine”.

Sul suo account Twitter, Ahmad Tibi, leader storico degli arabi israeliani, già vice presidente della Knesset e parlamentare della Joint List (La Lista araba unita, che con i suoi 15 seggi è la terza forza parlamentare d’Israele) collegando l’incidente di Minneapolis a quello di Gerusalemme, ha affermato: “Minneapolis è qui”, mentre la parlamentare Aida Touma-Sliman, anch’essa della Joint List ha invitato “tutti coloro che sono indignati per l’omicidio negli Stati Uniti, a guardare vicino a loro – un’intera nazione sta soffocando sotto l’occupazione, incapace di respirare ”.

Suo padre, Khairi al-Hallaq, scioccato e incredulo, era seduto nella sua casa, circondato da diversi giovani che conoscevano il palestinese ucciso e si erano precipitati da lui. L’uomo non riusciva pronunciare molte parole, tranne le preghiere e i borbottii che ripetevano “è stato ucciso a sangue freddo, è stato assassinato…”.

Il figlio autistico, dice, piegato dal dolore, sarebbe potuto sembrare un uomo adulto, ma il suo cervello era quello di un bambino che non interagiva con nessuno e che usciva di casa solo per andare alla scuola per disabili.

“Perché lo hanno ucciso a sangue freddo in questo modo?”, ripete in continuazione, “sostengono di aver pensato che avesse un’arma! Perché non lo hanno perquisito, perché hanno dovuto ucciderlo senza nemmeno assicurarsi che stesse trasportando la presunta arma?”

Khairi racconta che suo figlio aveva iniziato a frequentare la scuola per disabili circa sei anni fa, e che ci andava tutti i giorni dalla mattina alla sera, e quando tornava a casa restava da solo nella sua stanza.

Sua madre, in lacrime, sconvolta e incapace di riprendere fiato, si chiede: “Perché non lo hanno semplicemente catturato… perché non lo hanno perquisito… perché hanno dovuto sparare dei colpi mortali, uccidendolo a sangue freddo un questo modo?”

“È stato assassinato a sangue freddo, non aveva altro che il suo telefono cellulare e il suo portafoglio”, aggiunge, “non trasportava armi, voleva andare a scuola perché si annoiava a casa, mentre a scuola poteva essere più attivo e interagire con gli altri”.

“In questo momento, dopo che è stato assassinato in questo modo, il mio unico desiderio è di poter svolgere la cerimonia funebre nella moschea di Al-Aqsa, prima che sia sepolto nel suolo di Gerusalemme”, ha aggiunto. “Era una persona innocente, non odiava nessuno e ciò che gli hanno fatto è un crimine non solo contro di lui, ma anche contro ogni persona diversamente abile. Hanno ucciso il mio unico figlio, era un bambino nel corpo di un uomo. Hanno ucciso il mio unico figlio, hanno ucciso il mio unico figlio…”

E mentre in un video che circola sui social media, la madre di Iyad Hallak chiede “giustizia, giustizia da parte dello Stato di Israele”, il seguito giudiziario del caso, per molti osservatori, è già noto:”In molti incidenti simili, la giustizia non è mai stata fatta. Lo Stato di Israele sarà imbarazzato dal caso, potrebbero esserci alcuni cambiamenti amministrativi o punizioni molto leggere contro i soldati responsabili. Ma il problema non è solo che i soldati reagiscono al minimo segnale, il problema è il sistema “, ha affermato il dott. Samah Jabr, capo dell’Unità di Sanità mentale del Ministero della Salute palestinese.

Nonostante i paragoni e la somiglianza degli incidenti, le conseguenze giudiziarie degli omicidi a Minneapolis e Gerusalemme potrebbero quindi rivelare la portata delle differenze nelle reazioni tra i due paesi. Negli Stati Uniti, i quattro agenti di polizia sono stati rimossi e sono sotto inchiesta. Il sindaco di Minneapolis ha presentato scuse ufficiali e il paese è scosso da un’ondata di violente proteste. “Laggiù negli Stati Uniti sparano ai neri, il cui sangue non vale molto; in Israele sparano ai palestinesi, il cui sangue vale ancora meno. Ma qui, di fronte all’omicidio dormiamo; lì, l’omicidio mette in moto le dimostrazioni “, ha osservato Gideon Levy, icona del giornalismo israeliano, su Haaretz.

Ahmed, Iyad. Vite spezzate in una Palestina insanguinata.

Globalist

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