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Lo strazio delle madri tunisine alla ricerca dei corpi dei figli affogati

Quattro mamme ad Agrigento. Attraversano la città quando ha già le luci e i colori del Natale che arriva. Varcano il portone della Procura, salgono negli uffici dell’aggiunto Salvatore Vella.

di Onofrio Dispenza

Papà stiamo morendo…sto morendo…La barca affonda…Anneghiamo…“. Parole ora singhiozzate, ora urlate, e disperate, mentre si sentono altri pianti, altre urla. Le ultime telefonate a casa, prima di morire. Quattro mamme tunisine in Procura, ad Agrigento, davanti ai magistrati, per mettere una pietra sulla loro maternità, su quel figlio pianto per morto e che adesso sanno che è davvero morto. Solo due dii loro, con in mano il test del Dna torneranno a casa con un lutto che si quieta.

Per le altre due resta il lutto disperato di chi non ha in pugno la parola fine, il dramma continua con un’attesa vana. Quattro mamme ad Agrigento. Attraversano la città quando ha già le luci e i colori del Natale che arriva. Varcano il portone della Procura, salgono negli uffici dell’aggiunto Salvatore Vella.
Al suo fianco, il pm Cecilia Baravelli. Sono quattro delle centinaia di mamme dell’associazione che raccoglie le famiglie che hanno avuto un morto in mare in questo nostro contemporaneo Olocausto, la strage nel Mediterraneo.. Sono arrivate ad Agrigento aiutate dal loro Consolato. Abitano vicino a Sfax, tra loro c’era chi proprio non sapeva che il loro figlio si era imbarcato per provare a venire in Europa. And, la notizia del naufragio era arrivata, un altro naufragio dopo tante altre tragedie, ma non sapevano. Poi l’attesa per il figlio che non rientrava. Il due più due è stato facile, drammaticamente facile. Per loro è iniziato il calvario: il prelievo del Dna in Tunisia, il raffronto con i prelievi alle vittime del naufragio in Italia. E’ stato cosche due delle mamme hanno avuto la certezza che i loro figli erano tra quanti sono stati sepolti a Caltanissetta. Ad altre due a dire che non c’erano più speranze è stato un video realizzato da una giovane tunisina; video girato su un barcone partito da Sfax e naufragato all’inizio di ottobre. Nelle immagini, drammatiche, i loro figli.

I loro corpi non sono tra quelli recuperati in mare, probabilmente sono tra quanti sono rimasti in fondo al mare. Quinto piano del Palazzo di Giustizia di Agrigento, le pareti non riescono a contenere la disperazione delle mamme che sanno dei loro figli nel cimitero di Caltanissetta e delle mamme che piangono quel che resta dei loro figli sballottati dalle correnti. Momenti duri per i magistrati, che pure in questi anni hanno scritto di pugno pagine e pagine di tragedie, di lutti, di orrori e di episodi frutto delle ingiustizie del mondo. E accanto, le oscenità che da questa parte del Mediterraneo hanno accompagnato una delle più drammatiche pagine della nostra Storia e della nostra quotidianità con parole di odio. Nella stanza del dolore, con le mamme e i magistrati, i Medici senza frontiere e quattro studentesse universitarie del corso di Mediazione culturale, per tradurre crudezza delle cose e le parole del lutto.

Le mamme raccontano dei figli, della loro voglia di provare a cambiare la loro vita con l’azzardo di un viaggio con poche speranze e con molte insidie. Una di loro credeva che quella sera il figlio fosse al bar con gli amici, come tante altre sere.. Non sapeva che era salito su quel maledetto barcone. Partito dalla Libia, aveva fatto sosta a Sfax prima di avventurarsi in mare aperto, puntando verso la Sicilia. Essere magistrato ed occuparsi di quanto si consuma nel Mediterraneo non è facile. Non è facile dormire la notte quando il giorno si è sentito il racconto di una delle madri che dice di un’altra madre che, non trovando il figlio, riesce a recuperare il numero telefonico di un amico del figlio, anche lui sul barcone. La mamma non ha la forza di chiamare, lo fa il padre. Chiama, e il telefono passa dalle mani dell’amico a quelle del figlio.

E dal figlio sente che stanno affondando, che stanno morendo. Ultime parole, ultime lacrime di un figlio che non tornerà, risucchiato dalle onde di un mare ormai abituato a vestire il nero. Una delle quattro mamme dice di aver riconosciuto il suo ragazzo in una foto realizzata dagli uomini della Capitaneria in fondo al mare. L’immagine del viso, sfigurato, la certezza che gli abiti addosso erano quelli del figlio. E il figlio è ancora lì, a sessanta metri di profondità. Non è facile fare il magistrato e riuscire a dormire la notte quando una madre disperata si inginocchia davanti a te e ti implora:”Voglio mio figlio! Voglio almeno il corpo di mio figlio, ridatemelo!“. Giovani dai 18 to the 32 years. Ventiquattro anni il ragazzo che la mamma pensava al bar. Famiglie di contadini, con la vita difficile, but not impossible. Sul barcone, con Hamidi c’era anche Khaied, sposato e con una figlia piccola. In Italia ci voleva venire per curarsi, aveva un tumore, gli era stato negato il visto per motivi di salute. E’ morto con addosso, attaccata alla pancia, una busta con dentro le analisi e le cartelle cliniche che documentavano quel tumore.

Chi muore con la pagella cucita addosso, chi con il verdetto infausto che rende piccolo il rischio della traversata. Quando si scriveranno le pagine di Storia di questo nostro tempo, che non si dimentichino queste storie. La falseremmo e faremmo un ulteriore torto ai protagonisti di queste storie.

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