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“Mi chiamo Italia e faccio l’operaia, Whirlpool è casa mia”…

Storia di una lavoratrice dello stabilimento in crisi. “Qui siamo competenti, ci hanno sempre fatto i complimenti. Chiudere è indegno”

di Conchita Sannio

NAPOLI – “Sto qui da quando sono bambina, questa fabbrica è casa“. Prima, in assemblea, ha pianto. Ora, per liberarsi, lo dice in altro modo e ride: “Mangio pane e lavatrici da prima di nascere. Mio padre ha lavorato qui per 33 anni. Ci ha cresciuto tre figli, e lavorava solo lui. Per me, quella macchina non ha segreti”. Ha un nome emblematico. Si chiama Italia questa operaia della Whirlpool entrata in fabbrica ventuno anni fa, al posto del padre Vincenzo, “smaltatore di sesto livello”. Insieme agli altri, ora mangia e dorme da cinque giorni e quattro notti nei capannoni di via Argine, a Ponticelli, Napoli est. Periferia prossima al deserto, con i clan che stanno a guardare. “Non diamo altre braccia alla camorra”, è scritto sui cancelli.
Ce ne sono cento come lei. Operaie, mamme. C’è Annalisa Iorio, anche lei separata, un bimbo di 10 mesi, catena di montaggio, 13 minuti di pausa. C’è Anna B. che l’altra sera aveva una festa in famiglia e ha portato i dolci in fabbrica. E poi Luciano Doria, che proprio lì ha perso il padre in un incidente sul lavoro. E c’è Salvatore che, domenica, ha chiuso la Prima Comunione del suo bambino portando tre chili di confetti al presidio. Tra loro, non si chiamano compagni. Ma lo sono.

Italia Orofino, 47 anni. E poi?
“Sono a capo di un nucleo monoreddito, sono divorziata, con due figli adolescenti. Operaia di quinto livello, addetta alle Immatricolazioni, sono quella dell’Ifu”.

Cioè?
“Instruction For Use, le istruzioni per l’uso. Diciamo che so tutto di questa macchina, la Omnia, che ora è la lavatrice più silenziosa del mercato. Di noi tre fratelli, sono quella che ha scelto la fabbrica”.

Quanto è il suo stipendio?
“Ora, che siamo in solidarietà da quasi 5 anni, mille euro”.

Come fa a farli bastare, con due adolescenti, la casa, le vacanze?
“Per fortuna non devo pagar e il fitto per la mia abitazione. Ma tutto il resto sì. Compreso lo sport per i ragazzi, lei 12 anni e lui ne ha 11. Che hanno già capito tutto…”. E la voce si incrina.

Sono preoccupati per lei?
“Sono tornata a casa il lunedì e non li vedevo da venerdì. Per fortuna i miei genitori anziani in questi giorni fanno da baby sitter, da cuochi, da assistenti psicologici, tutto. Quando sono risalita a casa, i miei figli mi hanno fatto l’applauso. Ho cercato di darmi forza. Ma poi sono crollata”.

Sapevano della battaglia in corso?
“Sanno tutto. E hanno cominciato a chiedersi che cosa potrebbe cambiare. Mia figlia ama molto la danza. Da otto anni segue i corsi. Torno e mi fa sottovoce: “Guarda che se non ce la facciamo io rinuncio a danza, non ti preoccupare””.

Quest’azienda è stata premiata.
“Guardi che siamo operai competenti. Qui facciamo un prodotto di alta gamma per il quale ci hanno sempr e fatto i complimenti, e noi ci abbiamo creduto. Ecco perché è ingiustificabile, e indegna, questa decisione di chiudere. Noi saremmo in grado di portare avanti da solo questo settore di mercato. Sappiamo quello che facciamo, conosciamo la nostra competitività. E poi c’è un legame forte con il territorio su cui stanno sputando”.

Per lei è anche protezione e vissuto familiare.
“Sì. All’inizio, mi misero alla prova con contratti di pochi mesi, mio padre era ancora dentro, uscivamo insieme a lavorare, mi piaceva. Ancora prima, anni Ottanta, mio padre organizzava, con i colleghi del Cral, l’Epifania”. (Si guarda intorno, come a cercare tracce di una comunità che rischia di sbriciolarsi). Indica uno spazio in fondo. “Lì sceglievamo i regali, in quella zona”.

Che età aveva?
“Era l’età in cui si crede che le famiglie possono essere felici e arriva Babbo Natale. Scelsi una bicicletta. Era bella. Poi mio padre ebbe in regalo un piatto con un Santa Claus: me lo sono portato a casa mia, è il centrotavolo dove taglio il pandoro anche ora. È sopravvissuto al matrimonio”, ride.

In molti avete ereditato il “posto” del papà.
“Ma solo se eri bravo e ti piaceva. Pensi che oggi lavora con me un altro dei figli di un operaio collega di papà con cui siamo cresciuti insieme, amici i grandi, amici i piccoli”.

Generazioni parallele.
“Per esempio, io e Onofrio Giacquinto, eravamo i ragazzini che andavano a vedersi Diego Armando Maradona al San Paolo, insieme ai due papà operai. I nostri genitori cercavano di avere biglietti scontati per la curva. Da grandi, facciamo i turni qui. E ora la battaglia insieme”.

Che cosa vi aspettate, adesso?
“Lotteremo. Non vogliamo riconversione, zero contentini”.

Cosa avete chiesto al governo?
“Di Maio ha parlato bene, ha detto chiaro e tondo che nessuno si farà più prendere in giro. Speriamo che si faccia ascoltare, che abbiano il modo per imporsi. Non sappiamo più niente adesso, del futuro. Un fatto è certo: non vogliamo mollare, per noi, per l’indotto, siamo migliaia”.

Suo padre e altri pensionati sono venuti a dare una mano al presidio…
Sì. Sono stati in fabbrica. E me ne sono pentita…”

Perché?
“Mio padre Vincenzo era stanco, angosciato. “Pensavo di aver fatto una cosa buona nella vita, averti passato il mio posto, un lavoro buono di operaio. E guarda in che guaio ti ho messo”. Aveva le mani nei capelli. L’ho accarezzato, gli ho detto che ce la caveremo”.

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