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Nagorno-Karabakh, ecco perché a Putin non conviene risolvere il conflitto

*NEWS ANALYSIS – Il disastro umanitario che si verifica in Nagorno-Karabakh, una regione del Caucaso che sembra lontana dall’Italia e dall’Europa, ma con cui il nostro Paese ha intensi rapporti commerciali (dall’Azerbaijan partirà la rete di gasdotti che arriverà fino in Puglia con il Tap), è la riaccensione di un conflitto che va avanti da 30 anni. In queste poche settimane di combattimenti ci sono già stati più di 70 mila sfollati, almeno 70 civili sono stati uccisi da entrambe le parti, il Covid-19 sta colpendo in modo violento e con cifre esponenziali in Armenia e Azerbaijan, si avvicina un inverno in cui il rischio saranno le scorte alimentari che scarseggiano. L’escalation dell’autunno è l’ultima fiammata di quello che è considerato come un “conflitto congelato”, ma ora più che mai capiamo quanto sia sbagliata questa definizione.

Il contesto mostra una situazione di questo tipo: gli azeri hanno perso la guerra con gli armeni 30 anni fa, e il controllo di sette regioni (maggiormente popolate da azeri) attorno al Nagorno (terra sotto il governo dell’Azerbaijan, ma per l’85% armena); il premier dell’Armenia, Nikol Pashinyan, ha cominciato ad adottare una retorica più aggressiva e nazionalista; entrambi, azeri e armeni, considerano il Nagorno-Karabakh una terra sacra e ne vogliono il controllo, mentre il gruppo di Minsk dell’Osce (Russia, Francia, Usa) ha fallito completamente e non è riuscito a costringere nessuno dei due a fare concessioni. Ora, l’Azerbaijan lancia una guerra per riconquistare territori persi, incoraggiato da un inedito posizionamento della Turchia, che lo sostiene e non ha mai preso parte così direttamente come oggi: ci sono notizie confermate che gli azeri usino droni forniti da Erdogan, al loro fianco stanno combattendo anche alcuni mercenari siriani.

Ma diciamo subito una cosa: questi mercenari non sono jihadisti. La religione, in questo conflitto, non c’entra niente. Torniamo ad allargare il campo agli attori esterni protagonisti. C’è Ankara, che è stato il “game changer”. E c’è la Russia, che è rimasta sorpresa dall’accelerata di Erdogan e ha tardato ad agire, anche se molti pensano che sia Putin ad avere in mano il potere di decidere quando e come eventualmente fermare l’escalation. Mosca ed Erevan, capitale dell’Armenia, hanno un patto di cooperazione militare legato all’appartenenza all’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (CSTO) e al sistema congiunto di difesa aerea della Comunità degli Stati Indipendenti, nata dopo lo scioglimento dell’Urss.

La domanda, allora, è: perché la Russia non sta facendo nulla per il suo alleato-partner strategico? Intanto, le relazioni sono cambiate dal 2018, quando è salito al potere Pashinyan, che si è subito posizionato come un leader democratico ed è arrivato a un passo dalla richiesta di integrazione con la Ue, tutte mosse che non piacciono di certo a Putin. La Russia, inoltre, ha relazioni perfette con gli azeri, è parte attiva nella corsa agli armamenti del Paese, a cui ha fornito il 31% dell’approvvigionamento: insomma, l’Azerbaijan è tutt’altro che un nemico di Mosca. Per questo, la Russia ha sempre cercato di garantire un equilibrio, mantenere lo status quo e non volendo risolvere il conflitto dello status del Nagorno-Karabakh. Non escludo che Putin non faccia avanzare gli azeri, spingendoli a riprendersi 5 delle regioni, per poi fare il peacekeeper. E’ altrettanto improbabile, però, che Mosca accetti la presenza militare turca sul campo, ma d’altra parte non alimenterà qualsiasi tipo di scontro con Erdogan: i due leader, Putin ed Erdogan, hanno sempre capitalizzato i loro rispettivi interessi, pur quando questi sono conflittuali, così in Libia, così in Siria. Lavorano sopra le divisioni: tra i due Paesi intercorrono importanti relazioni energetiche. La Russia, insomma, ha interesse a tenere vivo il conflitto, però ha anche il potere di far rispettare il cessate il fuoco.

La priorità, dunque, adesso è fermare la guerra. L’Ue non può restare in silenzio. Gli azeri sono molto fomentati, anche sui social, a non cedere nulla e si appellano al diritto internazionale, mentre gli armeni a ragioni storiche. Il ruolo della Ue? Portare le parti a rispettare i principi di Madrid del 2007, elaborando un meccanismo di garanzia e sicurezza per il popolo del Nagorno Karabakh. A quel punto, il decorso potrebbe essere di questo tipo: che l’Armenia si ritiri pian piano dalle regioni attorno, e che poi a lungo termine si arriverà alla definizione di uno status per il Nagorno-Karabakh lacerato e conteso.

*Head of the Eastern Europe and Eurasia Programme Istituto Affari Internazionali (IAI)

La Stampa

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