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Nesrin e la guerra che non è finita «Europa, salva i bambini dell’Isis»…

Parla la celebre comandante curda «Ci sono duemila bambini educati dall’Isis all’odio, anche italiani»

di Lorenzo Cremonesi, inviato a Qamishli (Siria)

«Cosa possiamo fare adesso di questa generazione di bambini cresciuti nel mito della guerra santa? Dove li mettiamo? Come possiamo separarli ancora piccolissimi dalle madri che li educano tutt’ora a suon di slogan della vendetta in nome del Califfato? Per noi è come vedere crescere un serpente nel ventre di una madre». Nesrin Abdullah arriva subito al nocciolo per descrivere gli enormi dilemmi che si trovano a dover affrontare i responsabili di «Rojava» (il Kurdistan siriano) il giorno dopo che la loro bandiera gialla con la stella rossa è stata piantata tra i resti fumosi sull’ultima ridotta dell’Isis a Baghouz.

Giungendo nel suo ufficio di ufficiale militare e portavoce delle unità combattenti curde femminili incontriamo per caso un paio di italiane in mimetica. «Siamo tante volontarie europee, e anche italiane, che non si vogliono fare notare pubblicamente nel nostro Paese per timore di essere perseguitate dalla legge. Più di quanto crediate», dice una di loro con i capelli raccolti a coda di cavallo. Rivela solo il nome di battaglia, Bercelan, è di Napoli, forse sulla trentina. «Se daremo interviste lo deciderà solo un nostro collettivo interno», aggiunge una sua compagna, che parla benissimo l’Italiano, ma è francese.

Giovani, donne e uomini, volontari contro l’Isis e dall’altra parte madri neppure ventenni che non hanno cessato di credere che comunque il Califfato risorgerà e loro compito è insegnare ai figli come continuare la guerra santa a oltranza. «L’Isis è battuto, ma certamente non è morto. Le sue cellule continuano a costituire pericoli minacciosi per tutti», ripetono i curdi. È un mondo intenso, violento e carico di tensioni. Lo prova tra l’altro la ricerca degli ostaggi occidentali, che sino a qualche giorno fa si riteneva fossero ancora nelle mani dell’Isis. «Al momento non c’è traccia di loro. Non li abbiamo trovati, non so, ora si cercheranno le fosse comuni. Per esempio non so cosa dire alla famiglia del gesuita italiano Paolo Dall’Oglio che pure mi aveva contattata. A Roma un anno fa avevo anche incontrato la sorella in cerca di notizie», dice Nesrin Abdullah. Forse mai come in questo momento i responsabili di Rojava hanno gioco facile nel presentarsi come la prima linea della battaglia contro il terrorismo islamico. «Abbiamo bisogno del contributo anche di voi europei. I vostri governi non vogliono prendersi indietro i jihadisti venuti volontari dai vostri Paesi. Sono tantissimi, almeno 5 mila uomini arrivati da 49 nazioni diverse e ora chiusi nelle nostre prigioni. Sono l’avanguardia più pericolosa dei circa 65 mila tra donne e bambini che abbiamo raccolto dalle fiamme di Baghouz. Vanno rieducati con psicologi e insegnanti. Poi ci sono almeno 2 mila bambini che erano stati preparati per immolarsi da kamikaze. Figli di tunisini, ceceni, francesi, turchi e anche italiani. Ma rieducare comporta pazienza, tempo e investimenti enormi», continua Nesrin. Da parte loro i curdi siriani hanno già rivelato i combattenti morti. Il numero ufficiale è segreto militare, ma la portavoce ammette che su circa 35 mila miliziani attivi i morti dal 2014 adesso sfiorano quota 9 mila, di cui oltre 800 donne. I feriti si aggirano sui 20 mila.

Sul fronte politico pesa non poco la scelta americana di aver continuato a sostenere militarmente Rojava, sebbene a dicembre Trump avesse prospettato il ritiro dei circa 2 mila uomini delle sue forze speciali. Ufficialmente adesso dovrebbero scendere a 400, ma al Pentagono non parlano ancora di alcun loro indebolimento in Siria. Tutto ciò fa rialzare la testa ai curdi. Se ancora pochi mesi fa parevano disposti ad accettare il ritorno negoziato del regime di Assad anche nelle loro regioni, adesso parlano apertamente della necessità di una «radicale riforma interna alla Siria».

Commenta Nesrin: «Noi curdi siamo siriani, Rojava è una provincia siriana, il nostro Paese deve restare integro e unito, ma occorre sviluppare la democrazia, decentralizzare lo Stato creando forti autonomie regionali contro la dittatura, il nepotismo, la sopraffazione». Insomma Rojava rifiuta di fare la fine dei «cugini» curdi iracheni, i quali insistendo per la creazione dell’indipendenza totale da Bagdad in uno Stato separato sono finiti per perdere anche quella più limitata creata dopo la guerra del 1991. «Una forte confederazione, dove i nostri combattenti potranno unirsi a diventare parte integrante dell’esercito nazionale siriano. Va anche creato un meccanismo di difesa contro le mire annessionistiche turche ai nostri confini settentrionali. Per questo motivo Rojava manda una parte dei suoi soldati a difendere l’enclave di Afrin. Quanto alla figura di Assad, siamo pronti a garantirla, se in libere elezioni la maggioranza dei siriani lo vorrà scegliere. Ma proprio su questo punto è fondamentale che voi non ci lasciate soli. Da una parte abbiamo la storica minaccia turca e dall’altra restano forti le aspirazioni dittatoriali di Damasco. Noi curdi siamo in mezzo. Abbiamo necessità di alleati forti per sopravvivere. Nel mondo occidentale va compreso che proprio il sostegno alla causa curda è la miglior garanzia per la crescita della democrazia siriana del futuro»…

www.corriere.it

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