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Non c’è solo il coronavirus: la lebbra «morde» ancora

Ogni giorno colpisce 553 persone, l’80 per cento in India, Brasile e Indonesia. Aifo: «La povertà ostacola la diagnosi precoce, essenziale per evitare disabilità»

di Lucia Capuzzi

Non riusciva a stringere le dita: gli oggetti gli scivolavano fra le mani e cadevano a terra. Così Antonio Gavumende ha capito «di avere qualcosa che non andava». La madre, troppo povera per rivolgersi a un medico, lo portò da un curandero, un guaritore tradizionale. Le sue erbe, però, non sortirono effetto. Quando, su segnalazione dei maestri, Antonio riuscì ad essere portato in ospedale, gli venne diagnosticato il morbo di Hansen. Ovvero la lebbra, di cui ricorre la 68esima Giornata mondiale.

«Mi curarono, ma per le mie dita era troppo tardi, la malattia le aveva mangiate. Non è stato facile trovare moglie e lavoro, dopo. Per la gente ero sempre un “lebbroso”», racconta l’ormai 57enne, nato nella regione di Vanduzi, in Mozambico. Mezzo secolo dopo, il morbo di Hansen continua a divorare le vite di centinaia di migliaia di donne e uomini nel Sud del mondo. Ogni giorno, la contraggono 553 persone, per un totale di 202mila casi nel 2019, l’ultimo dato disponibile dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms). Più dell’80 per cento è concentrata in India. Brasile e Indonesia. Il resto è ripartito fra 120 Paesi in tredici dei quali – dal Bangladesh alla Tanzania –, il numero di infezioni è superiore a mille.

Nell’ultimo decennio, i casi sono diminuiti dell’uno per cento all’anno. Un calo importante ma troppo lento per un’infermità completamente curabile dal 1981, grazie ad un trattamento standard, chiamato polichemioterapia. A preoccupare, soprattutto, la quota significativa di bambini colpiti – 7,4 per cento –: dato che conferma come la trasmissione sia ancora attiva. E i ritardi tuttora esistenti nell’individuazione della malattia, a causa della fragilità dei sistemi sanitari nel Sud del pianeta. «La diagnosi tempestiva è essenziale per evitare l’insorgere di disabilità, spesso irreversibili – spiega l’Associazione italiana amici di Raoul Follerau (Aifo) –.

Nel mondo ci sono più di tre milioni di persone “marchiate” dalla lebbra e sono i più poveri». Questo aumenta le difficoltà di integrazione sociale. «È stata Aifo a cambiarmi la vita, dandomi gli strumenti adatti per lavorare la terra e allevare le capre», dice Antonio. «Lo stigma è la principale causa di sofferenza per le persone colpite: non scompare nemmeno quando queste persone sono completamente guarite», ha spiegato a Fides padre Pierre-Marie Bulgo, missionario camilliano impegnato nel lebbrosario di Ouagadougou, in Burkina Faso.

Nell’ultimo anno, inoltre, l’emergenza Covid ha costretto a rallentare o rimandare i piani per la prevenzione e la cura della lebbra. «Non è stato facile, abbiamo dovuto fare prevenzione anche contro il coronavirus – sottolinea Aifo, che ha organizzato un incontro online dalle 15 alle 17 domenica 31 gennaio, con la partecipazione del cardinale Matteo Zuppi –. Siamo, però, riusciti a tenere aperti i nostri servizi specializzati».

Avvenire

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