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Partono i mondiali di calcio femminile: “Noi donne rifugiate, che giochiamo per sentirci libere”…

Andiamo a conoscere una squadra speciale. Nata dalla più famosa equipe maschile, quella delle Libere Nantes è la prima in Italia formata da richiedenti asilo e rifugiate.

di Eleonora Camilli
Aisha è arrivata a Roma due anni fa, il 21 settembre 2017: “una data importante”, dice, “una data impossibile da dimenticare”. Vittima di continue e ripetute violenze domestiche, dopo l’ultima aggressione in casa, costata diverse fratture e 15 giorni di ospedale, ha capito che l’unico modo per salvarsi era lasciare il suo paese, l’Algeria. E così, ottenuto un visto per studio, ha preso un aereo ed è atterrata a Fiumicino. “Avevo ancora i segni sul corpo quando sono andata a chiedere la protezione internazionale e per fortuna me l’hanno accordata – racconta -. Ero terrorizzata dall’idea di dover tornare indietro. Nel mio paese c’è una cultura fortemente maschilista, ogni anno sono almeno 23mila le donne che subiscono abusi o violenze, lì siamo considerate meno di niente”. Sorride Aisha, il suo sguardo è finalmente sereno, mentre raccoglie i capelli e indossa la maglia numero 7 delle Libere Nantes, la prima squadra italiana di calcio a 5 formata da donne rifugiate e richiedenti asilo.

Al campo sportivo XXV Aprile di Pietralata, periferia est della Capitale, è l’ora dell’allenamento. Oggi si gioca insieme, maschi e femmine. Due giri di campo, poi scatti in avanti, qualche passaggio prima della partita. “Giocare a calcio mi è sempre piaciuto, da quando ero bambina – racconta – ma a casa mia era difficile, dovevo occuparmi delle faccende domestiche, pulire, non pensare al divertimento. Oggi faccio finalmente quello che voglio fare. Ogni volta che entro in campo mi sento una donna libera, è difficile da spiegare, ma a che fare con la mia identità, con il mio corpo, con il mio passato”.

Barbara, 20 anni, originaria del Ghana, il fisico esile e una massa di capelli, scalpita a bordo campo. Intercetta ogni pallone, poi con uno scambio veloce lo passa ai compagni e corre in avanti. E’ arrivata in Italia un anno fa a Lampedusa con una nave della Guardia costiera che ha intercettato in mare il gommone su cui viaggiava. Tre mesi li ha passati in un centro di detenzione in Libia, ma è un ricordo che rimanda indietro nella memoria e di cui non vuole parlare. “Sono forte come giocatrice, parliamo di questo – dice – Non voglio parlare di cose tristi. Giocavo anche in Ghana ma qui sento di poter migliorare, fare la calciatrice per me è un sogno bellissimo che si realizza”.

L’équipe femminile nasce dall’esperienza dei Liberi Nantes, una squadra di calcio formata per la prima volta undici anni fa da richiedenti asilo e rifugiati. Alcune delle ragazze vivono in strutture protette perché sono state vittime di violenza o tratta, altre sono ospitate in centri di accoglienza, sparsi in diverse zone del Lazio. Arrivano da diversi paesi, dalla Nigeria al Ghana, passando per il Maghreb e l’est Europa. Il progetto, che ha ricevuto il Best inclusive award della Commissione europea, ha preso il via grazia al “S(up)port Refugees Integration” (EAC-2017-0492). Ha il supporto dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati e di una rete di organizzazioni, come Be free, Differenza donna e Lucha y siesta, che si occupano di violenza di genere. “Sorridono, esultano, si divertono, se si pensa a quello che hanno subito questo è il riconoscimento più bello – sottolinea Alberto Urbinati responsabile dei Liberi Nantes-. Ci dicono spesso che qui hanno trovato una famiglia. In tante hanno anche ricominciato ad avere un rapporto col proprio corpo, martoriato, abusato, torturato in passato. E che oggi, invece, curano in una chiave di benessere. Per noi è un’emozione fortissima, anche l’immediatezza con cui giocando a calcio appaiono serene e tirano fuori il meglio di sè”.

Ad allenare la squadra è Maria Iole Volpe. “E’ la mia prima esperienza con una squadra di rifugiate – racconta -. Ho sempre lavorato nello sport al femminile con squadre professioniste, questa volta ho accettato sotto forma di volontariato. Era una sfida, è nato tutto senza impegno ma poi sono stata coinvolta pienamente e ho scoperto un mondo bellissimo, che mi ha portato a rispolverare questa grande passione. Anche perché le ragazze per giocare fanno grandi sacrifici, c’è chi affronta anche due ore di viaggio per fare una partita”. In tante sono alla prima esperienza col pallone: “ci sono delle difficoltà a livello tecnico e anche comportamentale, per questo abbiamo lavorato molto sui valori che legano una squadra, sul rispetto, sulle regole ma anche su come superare i propri limiti, andare oltre l’ostacolo e fare sempre di più”spiega.

E più c’è il divertimento: “ho sempre detto alle ragazze che una volta in campo dovevano mettere da parte le loro storie, ho lavorato perché lasciassero tutto fuori e godessero del gioco. – aggiunge Volpe -. Insieme a me c’è un team di persone che le coccola, io sono la più severa. Di certo non abbiamo guardato a loro con compassione o pietismo ma considerandole delle giocatrici. Per questo la squadra è cresciuta tantissimo. E contiamo di crescere ancora”.

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