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Pezzati (Oxfam): “Gaza è morte, distruzione, fame, sete e buio. L’inferno in terra”

Il policy advisor dell’organizzazione umanitaria: “Più del cinquanta per cento della popolazione di Gaza vive sotto la soglia di povertà. Il sessanta per cento delle persone soffre di insicurezza alimentare”

di Umberto De Giovannangeli

di Antonello Sette

Il segretario generale dell’Onu- Antonio Guterres ha detto che, se c’è un inferno sulla terra, è la vita dei bambini oggi a Gaza. In base agli ultimi vostri report quale è la situazione umanitaria a Gaza? La situazione è catastrofica – accusa il policy advisor di Oxfam rispondendo all’Agenzia SprayNews – . Non da ora. Oltre ai danni diretti e indiretti, causati dall’ultima escalation, bisogna calcolare gli effetti di cinquantaquattro anni di occupazione e di quattordici di blocco. A prescindere dal conflitto in corso, l’ottanta per cento degli abitanti, circa quindi due milioni di persone, sopravvivono solo grazie agli aiuti internazionali.

Più del cinquanta per cento della popolazione di Gaza vive sotto la soglia di povertà. Il sessanta per cento delle persone soffre di insicurezza alimentare perché ogni volta che si mette sulla tavola un pasto non si è mai certi del successivo. Le famiglie si indebitano fino all’osso per acquistare cibo. Il tasso di disoccupazione nei territori occupati è fra i più alti al mondo e Gaza detiene il record mondiale della disoccupazione femminile. Più della metà della popolazione giovanile ha meno di trenta anni e più della metà dei giovani non ha un lavoro. Sono da aggiungere la totale dipendenza dall’esterno per il fabbisogno energetico e l’acqua che novantaquattro volte su cento sgorga dai rubinetti contaminata. Le famiglie per bere sono costrette a sottostare alla speculazione dei venditori dei famosi boccioni di acqua più o meno depurata.

Una spesa rilevante e insostenibile per tanti.
Un quadro catastrofico antecedente, se ho capito bene, l’escalation in corso… Un quadro catastrofico a cui bisogna aggiungere i danni rovinosi del conflitto in corso: 450 edifici distrutti o gravemente lesionati, più di cinquantamila sfollati e da quelle che sono le prime e ultime notizie in nostro possesso il quaranta per cento delle reti idrica e fognaria sono compromesse. Tutto questo avrà una ricaduta gravissima negli ospedali. L’energia elettrica scarseggia anche perché sta scarseggiando il gasolio. Sarà molto difficile garantire già nei prossimi giorni l’assistenza e i servizi primari, se questa situazione dovesse perdurare.

L’ingresso a Gaza è impossibile? Nessuno può entrare. Né persone, né beni. La situazione è drammatica. E’ una catastrofe. Secondo gli ultimi dati in nostro possesso, a Gaza sono morte 230 persone, fra cui 75 bambini, 37 donne e 16 anziani. I feriti accertati sono 1503.

Ci sono state molte polemiche per l’abbattimento della torre della informazione di Gaza e si detto che lo scopo era l’oscuramento dei testimoni. Quale è la condizione delle Ong che operano nel conflitto? Siete visti anche voi come testimoni scomodi? Operare è complicatissimo. Speriamo di poter riattivare al più presto le nostre attività umanitarie. Non sappiamo ancora quale sarà l’atteggiamento del governo israeliano nei confronti delle agenzie di aiuto internazionali. Lo scopriremo a breve. Sicuramente c’è una tendenza che riguarda questo conflitto, ma che si può allargare ad altri in corso nel Medio Oriente, a partire dallo Yemen e dalla Siria, secondo la quale meno sono i testimoni e meglio è. Una tendenza ormai replicata in varie zone del mondo. Dove oltretutto i testimoni scomodi devono fare i conti con l’impunità che protegge chi si ritrovano di fronte.

C’è stata un’altra polemica anche su Israele ipervaccinata al contrario dei palestinesi. Partendo da questa differenza specifica, che cosa rischiamo noi tutti se non si trova il modo di vaccinare anche gli abitanti del quello che per convenzione viene chiamato il Sud del mondo? Una cosa questa pandemia avrebbe dovuto insegnarci: l’interconnessione fra tutti i popoli. Il virus non si ferma alla frontiera. Il destino dell’umanità non conosce frontiere. Le barriere e le disuguaglianze almeno per una volta andrebbero riposte. Le élite e la comunità internazionale non lo hanno ancora capito. E’ evidente che, se non si ferma il ciclo di mutazione del virus e, quindi, la creazione all’infinito di varianti, vaccinarsi solo in alcune zone del mondo non metterà mai interamente al sicuro la popolazione del pianeta.

Oggi si parla di quello che accade fra israeliani e palestinesi. Quali sono le altre grandi tragedie umanitarie di cui non si parla praticamente mai? Senza allontanarsi dal Medio Oriente, lo Yemen, teatro di quella che tuttora viene considerata dalla Nazioni Unite una delle più gravi crisi umanitarie del mondo. Una tragedia che non è mai entrata nel dibattito internazionale, Italia compresa, salvo la sospensione dell’export di armi indotto da alcuni avamposti della società civile. Una tragedia che conta quattro milioni di sfollati e coinvolge in termini di bisogni umanitari più di ventiquattro milioni di persone, di cui sedici milioni non hanno accesso né all’acqua potabile né ai servizi igienici di base. Un Paese, lo Yemen, che già prima del conflitto era il più povero di tutta l’area. Purtroppo nel mondo ci sono tantissime le tragedie umanitarie che non attirano l’attenzione della comunità internazionale, pur avendo delle ricadute pesantissime anche in termini di equilibri geopolitici.

L’Italia sembra cieca e sorda rispetto a qualsiasi emergenza umanitaria. Un tempo eravamo forse il Paese al mondo più sensibile, capace di mobilitazioni straordinarie. Che cosa è accaduto nel frattempo? E’ accaduto che in questi anni la popolazione si è impoverita. E’ diventata più insicura. Si è sentita abbandonata dalle istituzioni. Un mix negativo che ha determinato la chiusura in se stessi e il non pensare agli altri. Per quanto riguarda le élite politiche, è un altro mix di disinteresse e anche di incompetenza.

Che cosa la indigna di più? Mi indigna che si sia perso l’interesse verso l’altro, verso chi è lontano e il senso di essere legati da un destino comune. Nessuno sembra capire che quello che accade a qualche migliaio di chilometri di distanza ci riguarda tutti perché potrebbe accadere anche a noi. Questo mi indigna, più di qualsiasi altra cosa.

Globalist

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