Browse By

Yemen, the testimony of the MSF surgeon: "In war, even civilians on the street forced to improvise doctors to save lives"

Alzi la mano chi può dirsi pienamente informato su cosa sta accadendo inYemen. Le sorti di unconflitto territoriale, originato ed alimentato dallavolontà scissionista, trasformato in guerra per corrispondenza. A31 years esatti dalla unificazione del Paese, fino ad allora diviso inNord eSud, il futuro delloYemen è dettato dagliinteressi geopolitici delle potenze diriferimento. Nata come guerra civile tra il gruppoAnsar Allah (meglio conosciuto sui media come Huthi) che controlla la capitaleSana’a, la città delle Mille e una notte magistralmente raccontata daPasolini, e le forze militari fedeli all’ex presidenteAli Abdullah Saleh, dal marzo 2015 è diventato qualcosa di molto più grande.

Come spesso accade incrisi military di difficile comprensione, anche inYemen la matrice religiosa, Betweenislam sciita e sunnita, play aruolo importante, sebbene in realtà dietro, tanto per cambiare, ci siano semplicementemotivi economici legati allerisorse. Allargando lascala internazionale degliinteressi, i fronti locali rappresentano solo iltrait d’union con i due Stati egemoni che si scontrano militarmente, l’Iran a sostegno diAnsar Allah e l’Saudi Arabia in appoggio al governo diAbd Rabbuh Mansur Hadi, riparato adAden, città portuale dell’omonimo golfo, a fine marzo di sei anni fa. Come successo per la guerra inSyria, ancora più longeva, anche inYemen si sono creati due blocchi internazionali potenti che si minacciano a vicenda.Teheran si porta dietroHezbollah, presente anche inSyria, and theCorea del Nord, con laRussia in stand-by, mentre sul fronte saudita hanno il loro impatto gli aiuti deiPaesi emiratini (Kuwait, Bahrein, Eau) ed alcuniafricani, ma soprattutto l’appoggio degliStates Uniti, dellaTurchia e delle principali potenze europee. Gli elevati interessi economici hanno trasformato un conflitto da bassa ad alta intensità. Le prime scaramucce, Now we are investigating the Italian weapons sold to Saudi Arabia, sono iniziate nel lontano 2004, ma è dalla primavera del 2015 appunto che l’entrata in scena delle potenze mondiali ha modificato l’impatto. Stando ainumeri ufficiali, in sei anni la guerra inYemen ha provocato circa 25mila vittime tra le rispettiveforze militari e 15mila tra icivilians. Appuntonumeri ufficiali difficili da confermare in una crisi sigillata e resa quasi impenetrabile all’opinione pubblica internazionale.

Gli occhi, le orecchie e soprattutto le mani per tamponarel’emergenza umanitaria in corso inYemen sono quelli delle organizzazioni sanitarie che operano in prima linea. Ad esempioDoctors Without Borders che nel corso degli anni ha attivato una decina di progetti nei vari governatorati delloYemen, sia nel territorio controllato dagliHuthi che nel sud appoggiato dall’Saudi Arabia. In uno degliospedali di prima emergenza sul territorio nella località di al-Mokha sullaWest Coast, proprio sulla linea del conflitto, MSF ha realizzato un Emergency Surgical Center dove fino a pochi giorni fa ha operatoFederica Iezzi, giovane cardiochirurga pediatrica dell’ospedale regionale diAncona, originaria del chietino.

Dottoressa Iezzi, cosa succede in Yemen?
“Non spettano a me le analisi geopolitiche e tanto meno militari. Posso soltanto raccontare il dramma dei civili, vittime principali di un conflitto che, come gli altri, sfugge all’umana comprensione. Nel centro chirurgico di MSF abbiamo curato tutti, senza distinzioni di etnia, religione e appartenenza. Ma sono le vittime innocenti quelle che lasciano senza parole”.

Lei ha operato in un ospedale di guerra, non è così?
“Sì, la maggior parte dei feriti, e purtroppo anche delle vittime, arrivava nel nostro ospedale per le conseguenze delle azioni militari. Ferite d’arma da fuoco, mine antiuomo, bombardamenti. Difficile restare freddi davanti a certe situazioni, specie per chi arriva da un Paese in pace come l’Italia”.

In sei mesi avrà assistito a decine di drammi. Ci sono delle storie che l’hanno particolarmente colpita?
“Certo, una è capitata di domenica mentre stavo andando via dall’ospedale. Dal distretto di al-Durayhimi è arrivata un’ambulanza da dove è uscito un bimbo di 11 He listened to music at a wedding. Tutti urlavanoqasf, bombardamento. Si era appena affacciato al mondo e da quel giorno ha perso la gamba sinistra. C’erano schegge nella sua testa, alcune profonde. Al nonno del piccolo non ho potuto dire altro che ‘Abbiamo fatto il possibile, ma le condizioni rimangono molto gravi’. L’uomo aveva una lunga barba bianca e una disarmante dignità. Ce l’ho nella mia mente. Ha iniziato a piangere, seduto vicino a me e ho potuto sentire il suo dolore. Ce n’è anche un’altra molto dolorosa…”.

Racconti pure.
“Un sabato in pronto soccorso ed in sala operatoria c’erano decine di pazienti, condizione che purtroppo si ripeteva quasi ogni giorno. Osservavo i loro volti quando in pronto soccorso è arrivato un uomo dal distretto di Dhubab, nel governatorato di Taiz, saltato su una mina antiuomo. Aveva perso una gamba mentre stava lavorando per rimettere in piedi la sua casa. Qualcuno che si trovava in strada, ha preparato per lui untourniquet(laccio, bendaggio, ndr.) perfetto dal punto di vista tecnico, per fermare l’emorragia massiva. Ed uno dei miei pensieri, in quel momento, è stato che la gente normale non dovrebbe saper fare un tourniquet e invece in guerra sei costretto a impararlo”.

Lei si è occupata soltanto di vittime e feriti legati alla guerra?
“No, ma in un certo senso casi legati al conflitto, più o meno come diretta conseguenza. Penso alle donne incinte arrivate in condizioni terribili a causa di travagli non seguiti. Placente lesionate, infections, sanguinamenti. Molto spesso era tardi. La mortalità infantile e neonatale è molto alta in Yemen. E poi ci sono gli incidenti stradali a causa delle strade totalmente distrutte e abbandonate come conseguenza di mine e bombardamenti e per mancanza di manutenzione”.

Cure, ma anche formazione al personale locale?
“In particolare sulle parti chirurgica, intensivistica e neonatologica, pensando a rinforzare le conoscenze di tutto lo staff sanitario per un più facile passaggio di consegne”.

A livello di approvvigionamento di farmaci c’erano carenze?
“Ad al-Mokha c’è un grosso impegno nell’uso razionale di tutti i materiali sanitari. In contesti di guerra spesso i materiali sono scarsi o non ci sono sufficienti o veloci forniture. In Italia lo spreco di farmaci e materiali è notevole”.

Ci aiuta a capire, attraverso qualche dato, la mole di lavoro affrontato nel centro di MSF di al-Mokha?
“Il dato complessivo dei ricoveri solo nel 2020 è di oltre 6.600 pazienti a cui si deve aggiungere almeno il doppio dei pazienti visti in pronto soccorso e poi non ricoverati a seconda dell’intensità e della tipologia delle ferite e dei traumi. Ricordo turni in cui arrivavano ambulanze con a bordo fino a 10 pazienti contemporaneamente”.

Quanti internazionali lavorano nell’ospedale di Medici Senza Frontiere dove è stata lei?
“Relativamente pochi, circa una decina. In tutti i Paesi in cui opera Msf lo staff internazionale è sempre affiancato da quello nazionale che svolge un ruolo fondamentale: complessivamente nell’ospedale dove operavo lo staff locale conta più di 200 professionisti mentre le uniche figure ‘internazionali’ sono quelle di coordinamento, i chirurghi e gli anestesisti. Le nostre missioni sono relativamente brevi e vanno da un periodo di 3 a 6 mesi”.

Il personale ‘straniero’ da dove arriva?
“Da tutto il mondo. Australiani, belgi, tedeschi, French, scandinavi e ovviamente italiani. È sempre estremamente interessante conoscere professionisti da diversi Paesi e dunque diverse culture”.

Qual era la sua giornata tipo ad al-Mohka?
“Il personale internazionale è alloggiato in una guest house non distante dall’ospedale e i trasferimenti sono possibili solo a bordo di un mezzo di MSF. Si arriva in ospedale il mattino presto e alle 8 parte il giro-visite, compresa la terapia intensiva. A seguire inizia l’attività operatoria con una decina di interventi più le urgenze che purtroppo non mancano e allora si raddoppia. Si resta in ospedale fino al tardo pomeriggio, sempre a seconda della giornata”.

Poi il ritorno in quella che si può definire casa.
“Esatto, ma ripeto, gli orari sono molto flessibili, c’è la reperibilità costante, spesso siamo stati svegliati di notte permass casualty. will be, oltre al pasto, era l’occasione per conoscersi, condividere esperienze e racconti con gli altri membri dello staff”.

I contatti con parenti e amici a casa?
“La connessione internet è satellitare, il governo della zona garantisce sei ore di energia elettrica al giorno, per cui si viveva col generatore h24. Non ho visto come negativa la carenza della tecnologia, è servita per ritrovarmi”.

Adesso è tornata al lavoro nel reparto di cardiochirurgia pediatrica dell’ospedale regionale di Ancona: un bel salto.
“Spero di potermi riabituare a questi ritmi, ma dopo un’esperienza simile il compito è davvero gravoso”.

L’articoloYemen, the testimony of the MSF surgeon: "In war, even civilians on the street forced to improvise doctors to save lives" proviene daIl Fatto Quotidiano.

Please follow and like us: