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Io sono Katiuscia, anzi no… Io ero Katiuscia e sognavo una vita normale…

di Maria Luigia Alimena

Lei è Katiuscia Favero. Aveva 30 anni. Katiuscia è morta sognando la normalità, quella che aveva perso fin dall’ adolescenza.
A 13 anni aveva conosciuto la droga. Forse la via di evasione dai problemi adolescenziali. Forse il modo di sentirsi adulta. Le ragazze a quell’età vogliono controllare l’irruenza delle proprie emozioni.
Katiuscia era una ragazza con il dono del l’incanto, della fragilità e della speranza. Una virtù ed una condanna insieme.

Nel 2002 ruba un orologio. I suoi problemi psicologici diventano l’occasione per lo Stato di fare giustizia di quella fragilità, è una borderline. Viene inserita nell’ospedale psichiatrico tra le mamme che hanno assassinato i loro figli. Una condanna eccessiva per una che ha rubato un orologio.

All’interno dell’Ospedale comincia un altro calvario. Viene abusata ripetutamente da un medico e due infermieri. Katiuscia denuncia. Viene trasferita nel carcere di Genova. È la pena che deve scontare per essersi ribellata all’ombra del sistema.
È pazza, la sua parola vale zero, come il suo corpo abusato, come la sua anima assassinata ancora una volta.
La perizia medica conferma gli abusi, ma misteriosamente quel certificato che le dà ragione sparisce.
Ancora una volta le ombre del sistema. La sua parola vale zero come le lacerazioni impresse sulla sua vagina.

È pazza Katiuscia. È pazza perché conosce le ombre del sistema, quelle che agli altri non devono apparire. Viene reinserita nell’ospedale psichiatrico, altro reparto, stesso medico. L’ombra del sistema incombe ancora. È il 2005, chiama la mamma Katiuscia: mamma aiutami qui succedono cose strane. È la sua ultima frase alla madre. 13 giorni dopo sarebbe tornata a casa, il reinserimento familiare sarebbe stata la sua cura.
Katiuscia aveva solo bisogno di amore, di casa, di famiglia come qualsiasi donna fragile al mondo.

Il 16 novembre 2005 viene trovata impiccata ad una recinzione nell’unico posto non dotato di telecamere dell’OPG. Le sue ginocchia toccavano il terreno. I suoi pantaloni striati di erba e fango come fosse stata trascinata.

“Signora l’ultima biricchinata di sua figlia, si è uccisa” questa la comunicazione della sua morte alla madre.
Troppe ombre in un suicidio che di suicidio non ha nulla.

Katiuscia voleva vivere. Voleva riprendersi la vita interrotta a 13 anni. Katiuscia voleva nutrirsi d’amore, scaldarsi al sole che le è mancato in quelle stanze bianche del “manicomio dei saggi” che un sistema marcio le aveva imposto come cura.

Una vicenda giudiziaria controversa, macchiata dai buchi di un sistema garantista che uccide i deboli, i bisognosi, gli emarginati, i fragili. Katiuscia come Cucchi. Ma Stefano ha avuto la sua giustizia, seppur tardi. Katiuscia non avrà mai giustizia. Il caso è stato archiviato per mancanze di prove nel 2008.
Katiuscia è stata ammazzata mille volte, Katiuscia è stata violata dal silenzio.
La sua anima abbia pace, ma chi l’ha uccisa opera ancora nel nome del sistema, in nome di una giustizia ingiusta, che punisce e dissacra la fragilità di chi pur sbagliando ha diritto a vivere, ha diritto ad essere rispettato al di sopra del proprio incanto e della propria fragilità.

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