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Tra i dimenticati dell’Uganda dove la pandemia uccide a cinque anni

 Fornito da La Repubblica Fratellini ad Atura

di Pietro Del Re

Non ha più la forza di piangere, Nelson, tredici mesi, il pancino gonfio e una brutta dermatite che gli sta divorando il palato. È arrivato gravemente denutrito all’ospedale Giovanni XXIII di Oyam, in Uganda centrale, perché suo padre, disoccupato da mesi per via della pandemia, non aveva neanche i soldi per pagare un taxi che venisse a prenderlo nel loro villaggio. Come per migliaia di altri piccoli, la malnutrizione acuta è diventata uno degli effetti collaterali della pandemia in Africa, dove il coronavirus uccide poco ma dove ha stravolto gli sgangherati sistemi sanitari del continente.

Se in Occidente sono soprattutto gli anziani a morire, qui tra le vittime del Covid-19 si contano anche molti bambini di meno di cinque anni.

“Nel reparto di pediatria dove lavoriamo, la mortalità infantile è cresciuta del 25% per cento perché con la pandemia si sono ridotti i trasporti e dunque i ricoveri negli ospedali”, spiega Giovanni Dall’Oglio, fratello del sacerdote scomparso in Siria nel 2013 e manager di salute pubblica per conto dell’ong italiana “Medici con l’Africa Cuamm”, che all’ospedale di Oyam fornisce consulenze per migliorare la qualità dei servizi medici.

“Se a febbraio il presidente ugandese Museveni vietò addirittura le moto-taxi, paralizzando il Paese, con la crisi economica scatenata dalla pandemia sono aumentati i morti di malaria, Aids e tubercolosi perché la gente non è più in grado di ritirare i farmaci, mentre sono diminuite le vaccinazioni perché si è bloccata la distribuzione dei vaccini”, dice ancora Dall’Oglio. Soltanto per la tbc, l’Oms prevede 300mila morti in più rispetto ai 1,4 milioni del 2019, per le nuove difficoltà di diagnosticare la malattia.

E secondo uno studio appena pubblicato da Amref, l’organizzazione keniana dei “Medici volanti”, risulta che i programmi per la lotta contro l’Hiv sono stati ridotti del 56 per cento, con una diminuzione del 48 per cento del numero di persone che seguono la terapia antiretrovirale.

Com’è già accaduto per Ebola, c’è poi la paura di avvicinarsi agli ospedali, da molti considerati come i luoghi più pericolosi perché destinati agli “appestati”.

Altra conseguenza locale del Covid è l’impennata del numero delle adolescenti che rimangono incinte: con la chiusura delle scuole molte ragazze sono costrette dalle loro famiglie ad accasarsi tramite matrimoni precoci, combinati magari in un mercato con lo scambio di una mucca e qualche capretta. Da marzo, nel continente sono anche aumentati i conflitti, la disoccupazione e gli abusi fisici e sessuali, con scarse opportunità per i giovani nella risposta alla pandemia.

Con Dall’Oglio ci dirigiamo verso Atura, un borgo di contadini a dieci chilometri da Oyam, dove il Cuamm, unica organizzazione umanitaria rimasta nel distretto, sostiene un piccolo ambulatorio. Lungo la strada non vediamo nessuno con la mascherina, perché, spiega il medico italiano, in questa regione che conta 460mila persone non si è registrato neanche un morto per Covid.

Eppure l’indice di contagio supera il 25 per cento dei testati“. Certo, anche in Africa c’è una seconda ondata e le conseguenze socio-economiche del virus sono spaventose. Ma nel ventre molle del pianeta, nonostante le funeste previsioni di ecatombi epocali dei primi mesi, le cifre restano molto al di sotto della media, se si pensa che per la popolazione africana, che rappresenta il 17 per cento di quella mondiale, si contano appena il 4 per cento dei contagi e il 3,6 per cento dei morti.

Come spiegare questi numeri? Anzitutto con l’età media della sua popolazione (19,7 anni), la più giovane al mondo, che è soprattutto rurale e due volte inferiore a quella europea (42,5 anni). Secondo il direttore dell’ospedale di Oyam, Samuel Okori, bisogna anche considerare la scarsa connessione economica di molti Paesi africani, che ha limitato l’ingresso del virus, e una sorta d’immunità legata all’esposizione ad altre, ricorrenti epidemie.

Qui, infine, c’è uno sperimentato know-how nella gestione delle pandemie carente in altri continenti, il che ha spinto gli africani ad adottare misure drastiche, quali l’immediata chiusura delle frontiere.

In Camerun, dove la malaria è dieci volte più letale del Covid e dove la popolazione ha imparato a fronteggiare Ebola e il colera, la nuova pandemia non ha creato panico e la gente va allo stadio senza mascherina, con i letti di terapia intensiva per i malati di Covid che non superano l’1 per cento.

Ci si può interrogare sull’affidabilità di cifre così virtuose e magari imputarle a uno scarso livello di depistaggio del virus, testato soltanto su 20 milioni di persone. Eppure in nessun Paese africano s’è ancora registrato un picco di mortalità tale da far credere che la diffusione del Covid sia rimasta invisibile ai sia pur malconci scandagli dei medici africani.

Una volta rientrati a Oyam, con Dall’Oglio torniamo a visitare il reparto di pediatria. Due piccoli non ce l’hanno fatta, e le condizioni di un terzo sono molto peggiorate. Ha quasi due anni, ma pesa come un bimbo di pochi mesi. Il suo sguardo è morbosamente annebbiato e non reagisce agli stimoli.

Lì vicino, invece, un suo coetaneo piange disperato mentre un’infermiera, per inserire una flebo, cerca sul suo cranio glabro una vena che non riesce a trovare nell’incavo del gomito. Saranno forse questi bimbi i primi a esser vaccinati. Ma secondo il medico del Cuamm bisognerà aspettare almeno due anni, proprio perché sono pochi gli africani che muoiono di Covid.

le Repubblica

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