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A un mese dal ritiro, la cancellazione delle donne afghane è compiuta

Annullare la loro presenza nello spazio pubblico è il risultato più concreto raggiunto dai talebani. Le analisi di Fabbri (Limes) e Battiston (Ispi)

di Giulia Belardelli

A un mese dal ritiro delle truppe occidentali da Kabul, la mortificazione delle donne afghane si conferma al primo posto tra le priorità del governo talebano. In appena trenta giorni, i talebani hanno imposto alle donne una lunga serie di divieti: non possono più accedere all’istruzione secondaria; non possono più frequentare l’università, né come docenti né come studentesse; non possono svolgere la maggior parte dei lavori; non possono praticare sport che ne espongano il corpo. Il loro corpo deve sparire, nascosto sotto pesanti strati di tessuto fino a soffocare ogni desiderio di libertà. Non c’è spazio per loro nel governo, negli uffici, nei luoghi che furono di incontro e cultura. Il loro posto è tra le mura domestiche, dove anche i rapporti familiari risentono del clima oscurantista riportato in auge dai nuovi padroni di Kabul.

La musica tace, mentre tornano le esecuzioni capitali, i cadaveri esposti nelle piazze, le frustrate ai giornalisti, le intimidazioni a chi fino a ieri si era ritagliato un ruolo nella società afghana. Come le 220 giudici costrette a vivere in luoghi segreti perché oggetto delle minacce talebane: durante la loro carriera hanno fatto condannare centinaia di uomini per stupri, violenze, femminicidi; oggi quegli uomini sono liberi e danno loro la caccia, in cerca di vendetta. Nel giro di poche ore, da avvocate e magistrate sono diventate ricercate speciali, prede di quella violenza che per anni hanno cercato di contrastare.

Il resto del mondo, intanto, sembra già annoiato dal dramma afghano. “Tra elezioni tedesche, caso Morisi e altri discorsi astratti sulla difesa europea, l’attenzione dei media si è quasi completamente distolta dall’Afghanistan”, commenta Dario Fabbri, consigliere scientifico e coordinatore America di Limes. Il mese scorso, parlando con HuffPost, aveva previsto che sarebbe successo ma non così presto. Eppure, le notizie che arrivano dall’Afghanistan, dove la libertà di stampa è già un ricordo lontano, non hanno nulla di rassicurante. Vale la pena di ripercorrerle, soprattutto ora che il presidente del Consiglio Mario Draghi ha annunciato una data – il 12 ottobre – per il tanto atteso G20 straordinario sull’Afghanistan.

Per la maggior parte delle donne afghane, il bilancio di questo primo mese “senza invasori” non potrebbe essere più amaro. “Il cambiamento è stato drammatico per moltissime donne, in particolare per quelle che in questi anni si erano conquistate spazi di presenza e agibilità nello spazio pubblico”, commenta Giuliano Battiston, ricercatore Ispi ed esperto di Afghanistan. “Le direttive ufficiali, insieme a tante dichiarazioni che non hanno ancora ricevuto l’ufficialità da parte della leadership talebana, vanno tutte in una direzione: progressivamente, impedire che le donne occupino, come hanno fatto in questi anni, lo spazio pubblico e fare in modo che ritornino dentro le mura della casa. Questo vale per tanti settori, a cominciare dall’accesso al mondo del lavoro: i talebani, come fecero già negli anni Novanta, dicono che non ci sono le condizioni di sicurezza per le donne. In qualche modo, questa politica è presentata come una forma di tutela delle donne. È vero che in alcuni settori – in particolare quelli più vulnerabili in questo momento, come la sanità – alle donne è permesso di tornare al lavoro, ma non tutte lo hanno fatto, e ovviamente il contesto è molto diverso. In tanti altri ambiti, le donne devono in pratica rinunciare a ciò che hanno fatto finora: penso alle imprenditrici, alle donne che hanno lavorato nei ministeri, a quelle impegnate nel ministero per gli affari di genere, che è stato chiuso e sostituito con il ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio”.

Lo stesso discorso vale anche per la libertà di movimento: dentro le città, in particolare, le donne sono sempre più restie ad attraversare i centri urbani; si sentono minacciate, si sentono vulnerabili. “Bisogna tenere presente – spiega Battiston – che le città sono controllate da militanti talebani in buona parte giovani e inesperti, non abituati a rapportarsi con le donne; di questo sono consapevoli anche i leader del movimento, che hanno emesso ammonimenti formali verso i militanti di più basso rango affinché si comportino in modo appropriato. Questa però è anche una scusa che la leadership adotta per posticipare – fino a quando non si sa – il ritorno delle donne negli spazi pubblici e nel mondo del lavoro”.

Al momento il diritto delle ragazze all’istruzione è una favola a cui non crede più nessuno. Alle bambine è permesso di andare a scuola solo fino alle elementari. Le scuole medie e superiori sono inaccessibili. Sull’università la parola definitiva è quella del nuovo rettore dell’ateneo di Kabul, Mohammad Ashraf Ghairat: “Le donne dovranno stare a casa. Lavoreremo duramente per creare presto un sicuro ambiente islamico”. E ancora: “Come rettore dell’università di Kabul, vi do la mia parola: finché un ambiente davvero islamico non sarà fornito a tutti, alle donne non sarà permesso venire all’università o lavorare. Islam first” (prima l’islam, facendo il verso a Donald Trump).

Nel caso della scuola – prosegue Battiston – “non c’è un divieto esplicito: non si dice ‘le ragazze non possono studiare’, si è detto ‘i ragazzi devono tornare a studiare’, quindi facendo un bando implicito ma concreto. Un altro elemento che riduce l’accesso delle ragazze all’istruzione è che non potrebbero avere dei docenti di sesso maschile, e non ci sono abbastanza insegnanti donne. Oggi c’è una parte del corpo docente che ha rinunciato al proprio lavoro: tante lettrici, assistenti, ricercatrici in tante università che oggi sono intimidite, hanno lasciato il paese o sperano di farlo, mentre aspettano di conoscere le nuove direttive del governo”.

Un recente rapporto di HRW riporta le testimonianze anonime di alcune attiviste di Herat: raccontano molto bene come in pochissime ore la loro vita si sia trasformata, sia nelle pratiche quotidiane sia negli spazi domestici. “Si tratta di un aspetto più difficile da cogliere per noi che siamo lontani – osserva il ricercatore – ma il ritorno dei talebani ha in qualche modo galvanizzato e dato una sponda a quella parte più conservatrice e bigotta della società che è sempre esistita. Anche nelle famiglie i rapporti sono cambiati: cugini, zii, fratelli si sentono legittimati a resuscitare le posizioni più oscurantiste”.

Secondo Fabbri, le donne sono le principali vittime di un braccio di ferro, quello in corso tra i talebani e la comunità internazionale. “A un mese dal ritiro delle truppe occidentali, i talebani hanno la convinzione di essere indispensabili per evitare il collasso del paese, la prospettiva che più spaventa quasi tutti i soggetti coinvolti: hanno varato un governo che non tiene conto in alcun modo delle pressioni internazionali; hanno proibito alle donne di studiare e lavorare; hanno picchiato e frustrato i giornalisti, represso qualsiasi manifestazione di dissenso. Al momento non ci sono stati riconoscimenti ufficiali né sono stati sbloccati i flussi finanziari: è in corso un braccio di ferro dall’esito ancora incerto”, argomenta l’analista. I talebani tirano la corda, convinti come sono del bluff della comunità internazionale: sanno che l’idea di una guerra civile e di una popolazione ridotta alla fame significa instabilità e profughi, uno scenario che preoccupa i paesi vicini molto più di qualsiasi rassicurazione disattesa.

Per Battiston, i talebani hanno un problema di tenuta: se si mostrano troppo flessibili, perdono una parte dei propri affiliati e militanti; se si mostrano troppo ortodossi, perdono la possibilità di un rapporto con la comunità internazionale che per loro invece è vitale. Un segnale, anche se minimo, è venuto con le seconde nomine (viceministri e sottosegretari) dove sono stati inclusi rappresentanti delle minoranze ma anche tecnocrati (persino uno con un dottorato). L’inserimento di qualche competenza è stato un tentativo di venire incontro alle richieste di Pakistan, Cina, Qatar. Di donne, ancora una volta, nemmeno l’ombra: la loro cancellazione dallo spazio pubblico resta il più grande “risultato” finora raggiunto dal nuovo Emirato islamico.

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