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Gaza, dove l’infanzia è morta da decenni

Jonathan Crickx è il capo della comunicazione dell’Unicef per la Palestina. Quella che segue è il racconto di una sua missione nell’inferno della Striscia. È del 4 febbraio. D’allora le cose sono ulteriormente peggiorate.

Jonathan Crickx è il capo della comunicazione dell’Unicef per la Palestina. Quella che segue è il racconto di una sua missione nell’inferno della Striscia. È del 4 febbraio. D’allora le cose sono ulteriormente peggiorate.

Cartoline dall’inferno

L’Unicef stima che almeno 17.000 bambini nella Striscia di Gaza siano non accompagnati o separati. Ciascuno di loro ha una storia straziante di perdita e dolore.

Questo corrisponde all’1% della popolazione sfollata complessiva – 1,7 milioni di persone”.

Naturalmente si tratta di una stima, poiché è quasi impossibile raccogliere e verificare le informazioni nelle attuali condizioni di sicurezza e umanitarie”.

“Sono tornato da Gaza questa settimana. Ho incontrato molti bambini, ognuno con la sua storia devastante da raccontare.

Dei 12 bambini che ho incontrato o intervistato, più della metà aveva perso un familiare in questa guerra. Tre hanno perso un genitore, due dei quali hanno perso sia la madre che il padre. Dietro ognuna di queste statistiche c’è un bambino che sta facendo i conti con questa nuova orribile realtà.

Razan, 11 anni, si trovava con la sua famiglia nella casa dello zio quando questa è stata bombardata nelle prime settimane di guerra. Ha perso quasi tutti i membri della sua famiglia. La madre, il padre, il fratello e le due sorelle sono stati uccisi. Anche la gamba di Razan ha dovuto essere amputata. Dopo l’intervento, la ferita si è infettata. Razan è ora accudita dagli zii, tutti sfollati a Rafah.

In un centro dove i bambini non accompagnati sono ospitati e assistiti, ho visto anche due bambini molto piccoli di 6 e 4 anni. Sono cugini e le loro rispettive famiglie sono state uccise nella prima metà di dicembre. La bambina di quattro anni, in particolare, è ancora molto sotto shock.

“Ho incontrato questi bambini a Rafah. Temiamo che la situazione dei bambini che hanno perso i genitori sia molto peggiore nel nord e nel centro della Striscia di Gaza. “Nel bel mezzo di un conflitto, è comune che le famiglie allargate si prendano cura dei bambini che hanno perso i genitori. Ma attualmente, a causa della pura e semplice mancanza di cibo, acqua o riparo, le famiglie allargate sono angosciate e devono affrontare la sfida di prendersi immediatamente cura di un altro bambino, mentre loro stessi stanno lottando per provvedere ai propri figli e alla propria famiglia. In queste situazioni, è necessario rendere disponibile un’assistenza provvisoria immediata e su larga scala, mantenendo i bambini in contatto o rintracciando le loro famiglie, in modo da poterli riunire quando la situazione si stabilizza”.

Razan, come la maggior parte dei bambini che hanno vissuto un’esperienza così traumatica, è ancora sotto shock. Ogni volta che ricorda gli eventi, cade in lacrime ed è esausta”. La situazione di Razan è inoltre particolarmente angosciante perché la sua mobilità è fortemente limitata e non sono disponibili servizi di supporto e riabilitazione specializzati.

La salute mentale dei bambini è gravemente compromessa. Presentano sintomi come livelli estremamente elevati di ansia persistente, perdita di appetito, non riescono a dormire, hanno scoppi emotivi o panico ogni volta che sentono i bombardamenti.

Prima di questa guerra, l’Unicef riteneva che nella Striscia di Gaza più di 500.000 bambini avessero già bisogno di un supporto di salute mentale e psicosociale. Oggi, stimiamo che quasi tutti i bambini abbiano bisogno di Mhpss, più di 1 milione di bambini”. “Dall’inizio del conflitto, l’Unicef e i suoi partner hanno fornito supporto psicosociale e di salute mentale a più di 40.000 bambini e 10.000 operatori. Ho partecipato a una di queste attività ed è davvero un sollievo vedere i bambini giocare, disegnare, ballare, cantare e sorridere. Li aiuta ad affrontare la terribile situazione che stanno vivendo. Ma, naturalmente, questo è ben lungi dall’essere sufficiente quando vediamo l’entità dei bisogni.

“L’unico modo per ottenere un supporto psicosociale e di salute mentale su larga scala è il cessate il fuoco. Prima di questa guerra, nel 2022, il gruppo di protezione dell’infanzia guidato dall’Unicef ha fornito questo supporto a quasi 100.000 bambini. È possibile aumentare la scala ora. Lo abbiamo già fatto in passato. Ma non è possibile nelle attuali condizioni di sicurezza e umanitarie.

“Prima di concludere, vorrei aggiungere solo una cosa. Questi bambini non hanno nulla a che fare con questo conflitto. Eppure, stanno soffrendo come nessun bambino dovrebbe mai soffrire. Nessun bambino, indipendentemente dalla religione, dalla nazionalità, dalla lingua, dalla razza, nessun bambino dovrebbe mai essere esposto al livello di violenza visto il 7 ottobre, o al livello di violenza a cui abbiamo assistito da allora”.

La “normalità” che uccide

Quello che segue è un report che chi scrive ha pubblicato sul sito Oltremare dell’Aics (Agenzia italiana per la cooperazione e lo sviluppo) nel giugno 2018.

“Se un rapporto delle Nazioni Unite del 2012 dichiarava Gaza a rischio di invivibilità entro il 2020, Save the Children considera Gaza invivibile già oggi: con le condizioni attuali i bambini non riescono più a nutrirsi adeguatamente, dormire, studiare o giocare.

Le forniture di energia elettrica dall’Egitto si sono completamente interrotte e l’unica fonte resta Israele nonché l’impianto di generazione interno di Gaza, che funziona a regime ridotto dopo essere stato colpito nel 2009 e lo scorso aprile si è dovuto fermare per mancanza di combustibile e di fondi per i rifornimenti.

In un documentato report, Save the Children, l’Organizzazione internazionale dedicata dal 1919 a salvare la vita dei bambini e garantire loro un futuro, chiede a Israele di interrompere subito il blocco di Gaza, dove quasi la metà della popolazione non ha lavoro e l’80% sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, e chiede alle autorità palestinesi e israeliane di fornire i servizi di base indispensabili agli abitanti dell’area.

I 10 anni di isolamento hanno ridotto progressivamente la disponibilità di energia elettrica per le case che ora si limita a due ore al giorno o è totalmente assente per troppe persone.
La mancanza di energia elettrica sta penalizzando un’infrastruttura già paralizzata dal blocco e dal conflitto, costringendo a frequenti e lunghe sospensioni del trattamento delle acque reflue che hanno causato l’inquinamento e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, non sono più utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza. Ogni giorno si riversano infatti nel mare 108 milioni di litri di acque reflue non trattate, l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche.

I bambini di Gaza – rimarca Jennifer Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori Palestinesi Occupati – sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di Gaza hanno già sofferto 10 anni di blocco e di minacce continue a causa del conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività”.

La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i compiti o giocare a causa dell’oscurità.

“Qui è diverso dagli altri paesi che hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità”, dice agli operatori di Save the Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.

Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età.

Il primo dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente all’uccisione di persone.

I sintomi rilevati durante lo studio includevano: continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei, digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo, difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti.

La conseguenza più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (Dpts), ovvero l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta dell’individuo a eventi traumatici o violenti. Si tratta di sintomi frequenti in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico.

Andrea Iacomini, portavoce di Unicef Italia ha dichiarato che “a Gaza esiste un problema di conflitto permanente in un contesto dove è difficile intervenire perché è come stare in una scatola sigillata da cui non puoi comunque uscire”.
Secondo Bruce Grant, responsabile Unicef nei Territori Occupati: “per i bambini un evento del genere mina il senso di sicurezza. Non capiscono cosa stia succedendo e si sentono impotenti. A volte possono persino pensare di essere responsabili del disagio sofferto dalla famiglia”.
Fatima Qortoum nel 2008 aveva 9 anni. Ha visto schizzare il cervello di suo fratello, a causa delle schegge di una bomba e quattro anni più tardi, nel bombardamento del 2012, l’altro fratello di sei anni è rimasto ferito ai polmoni e alla spina dorsale. Ad oggi, Fatima soffre di PTSD.
“Non avevamo paura. Siamo abituati a tutto questo. Mio padre ci disse in casa: Gli israeliani stanno cercando di terrorizzarci, ma noi abbiamo la nostra resistenza che li spaventa”, ha raccontato all’Onu Mohamed Shokri, 12 anni.

L’evento-guerra, ovviamente, è il più traumatico per il bambino. Tutto il sistema sensoriale è allertato e colpito profondamente: essere testimoni di massacri, bombardamenti, invasioni militari; vedere soldati, armi, spari, persone uccise; sentire le urla dei feriti, sono tutte sensazioni sensoriali che si imprimono in maniera indelebile nella memoria.

Un anno dopo dall’operazione “Piombo Fuso”, Amal, 10 anni, portava con sé, ovunque vada, due foto di suo padre e di suo fratello morti durante l’attacco. “Voglio guardarli sempre. La mia casa non è bella senza di loro”, spiegava Amal, ferita gravemente alla testa e all’occhio destro.
Il danno fisico non è nulla in confronto a quello psicologico.

Fu trovata quattro gironi dopo l’attacco, semisepolta sotto le macerie, disidratata e in stato di shock; era una dei 15 sopravvissuti. Kannan, 13 anni, zoppica per il colpo di pistola ricevuto sulla gamba sinistra. Anche per lui il danno non è solo fisico: prima della guerra del 2014, era un appassionato centrocampista ma ora non gioca più a calcio. Nei mesi successivi alla sparatoria ha avuto ripetutamente degli incubi, si è svegliato spesso piangendo, si spaventa molto facilmente e “non va al bagno da solo” dice Zahawa, sua madre.

Le parole di una animatrice del Ciss (Cooperazione internazionale Sud Sud) descrivono bene i sentimenti dei bambini: “I bambini nei loro racconti, spesso fanno riferimento alla guerra. Dopo che abbiamo fatto il gioco delle sagome, abbiamo notato che i bambini riconoscono i loro occhi e le loro orecchie come punti di debolezza nel loro corpo, spiegando che con gli occhi vedono le distruzioni e con le orecchie sentono il bombardamento.

Invece per quanto riguarda i punti di forza, i bambini rispondono, le gambe perché ci aiutano a fuggire e le mani perché ci aiutano a nascondere la faccia”.
“La prima volta che sono tornato a Gaza dopo la guerra – racconta Akihiro Seita, il direttore dei programmi di salute dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi – sono rimasto impressionato da quanto madri e bambini soffrissero per la portata dei bombardamenti. Tutte le mamme che ho incontrato nei centri di salute dell’Unrwa hanno messo in evidenza come i loro figli si comportassero in maniera diversa durante e dopo il conflitto: alcuni non dormivano più, altri non mangiavano, altri ancora non riuscivano più a parlare. E’ straziante ascoltare questi racconti, ancora di più l’esserne testimone”.

Eyad El Serraj, lo psichiatra che dirige il Gaza Community Mental Health Programme e si occupa dei disordini post-traumatici sui minori dal 1990, dice che per i bambini in cura si va dagli incubi alla difficoltà di concentrazione, dal senso di colpa per essere sopravvissuti, fino al senso di insicurezza e impotenza.

Secondo El Serraj, la relazione che questi bambini hanno con i genitori è distorta perché si rendono conto fin dalla prima infanzia che non sono in grado di proteggerli, e parla di un trauma collettivo che aggrava il conflitto preparando la strada a nuova violenza, in quanto “il conflitto, da un punto di vista psicologico, dà vita a un ciclo di vittimizzazione e aggressione che continua a ripetersi, aggravandosi. I giovani passerebbero attraverso un momento iniziale di totale apatia, in cui si sentono stanchi e impotenti: uno stato d’animo che conduce spesso a gravi forme di depressione e alla fase di vittimizzazione. Poi il conflitto continua e i giovani cominciano a dare segni di forte ansietà e rabbia. E qui comincia la fase di aggressione che conduce a esplosioni di violenza: un ciclo che continua a ripetersi e ad aggravarsi. E a rendere impronunciabile tra i bambini di Gaza la parola “speranza”.

D’allora sono passati quasi 6 anni. Oggi si parla dei bimbi palestinesi. C’è chi s’indigna, chi versa lacrime di coccodrillo. Ma l’infanzia a Gaza è morta da tempo. Nel silenzio del mondo.

Globalist

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