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Gli invisibili delle insalate in busta

Viaggio nella Piana del Sele, fra i braccianti sfruttati nei campi e aiutati dagli operatori della Caritas Don Martino: Con la pandemia la condizione dei lavoratori immigrati è ulteriormente peggiora.

di Antonio Maria Mira

Una casetta in mezzo ai campi di cocomeri e di mais. Poco più che una baracca. Un cubo di blocchetti di cemento tre metri per tre, col tetto in eternit, amianto. Ci abitano sei marocchini, senza acqua né elettricità. Dormono a terra su vecchi materassi, tra sporcizia e degrado. Così vivono i braccianti della Piana del Sele, terra di agricoltura ricca, soprattutto quella in serra, i prodotti di ‘quarta gamma’, le insalatine e gli altri ortaggi in busta. Ma anche agricoltura di sfruttamento, ancor più in tempo di Covid. Accanto agli sfruttati da anni ci sono gli operatori della Caritas di Teggiano-Policastro, coi progetti Presidio e Sipla. Sono loro ad accompagnarci: il coordinatore Alvaro D’Ambrosio, responsabile di zona degli scout dell’Agesci, e il mediatore culturale tunisino Raouf, una drammatica storia di immigrazione che racconteremo un’altra volta. Siamo in località Papaleo nelle campagne di Eboli perché questi migranti hanno bisogno di aiuto, sia materiale che per i documenti. Hanno chiamato e i volontari sono arrivati, raggiungendo la catapecchia isolata, tra stradine quasi impraticabili.

Oggi solo uno di loro ha lavorato. È uscito alle 4 di mattina ed è tornato alle 17. Ha raccolto pomodori in serra (all’interno in questi giorni la temperatura supera i 40 gradi) per appena 25 euro. Ma almeno ha lavorato. Mohamed no. Ha 25 anni e la sua storia è davvero incredibile. È nato a Biella dove i genitori erano emigrati, ma poi a 5 anni è andato in Marocco. Tre anni fa è tornato in Italia con un permesso turistico, poi trasformato in familiare grazie ai nonni che vivono nel nostro Paese ma che poi lo hanno mandato via. «Ora non ho nessun documento. Non ho fatto la sanatoria perché non ho un contratto.

Ma per avere il contratto serve la residenza». E certo la baracca non lo è. Così gli hanno chiesto 500 euro per una residenza falsa. Ma non li ha e quindi rimane un ‘invisibile’ pur se nato in Italia. Alvaro assicura che chiederà all’avvocato se si può fare qualcosa. Intanto lui e Raouf scaricano riso, pasta, passata, olio, tonno, fagioli, e mascherine. Almeno per qualche giorno non avranno il problema di sfamarsi. C’è invece un problema sanitario. Uno di loro ha il corpo coperto di bolle, sembrano morsi di insetti ma potrebbero anche essere i prodotti chimici irrorati in dosi massicce nelle serre. I volontari promettono di tornare con i medicinali, dopo aver parlato col medico, a cui i 6 non hanno diritto in quanto totalmente ‘invisibili’. E con la pandemia «la condizione dei lavoratori immigrati è ulteriormente peggiorata e molti ci hanno chiesto aiuto», ci dice don Martino De Pasquale, direttore della Caritas diocesana. Così proprio la Caritas ha fatto più di mille tamponi mentre, malgrado le decisioni della Regione, «sono in ritardo le vaccinazioni degli ‘invisibili’ – denuncia Alvaro –. Noi informiamo che è possibile vaccinarsi anche se non si ha la tessera sanitaria e solo l’Stp, ma molti non hanno neanche questo e la Asl va a rilento».

Anche perché solo alcuni imprenditori chiedono la vaccinazione mentre altri si affidano ai caporali e gli importa solo di avere gli operai. Così la pandemia «ha fatto emergere ancor più lo sfruttamento. I lavoratori sono stipati nei furgoni senza distanziamento né mascherine», denuncia ancora don Martino. E alcune regole prudenziali sono durate pochissimo. «A maggio per la raccolta delle fragole invece di mettere come al solito i braccianti uno di fronte all’altro, hanno fatto uno sì e uno no. Ma è durato pochissimo e sono tornati alla rac- colta faccia a faccia». Mentre la paga spesso è calata, dai 30-35 euro degli anni scorsi ai 20 euro per chi non ha i documenti. Per 10-12 ore al giorno. La Caritas ha seguito una settantina di domande di sanatoria, circa metà braccianti e metà badanti. «Ma per ora solo una decina hanno ottenuto il permesso di soggiorno».

Quest’anno sono molti meno gli stagionali dai Paesi dell’Est, mentre sono aumentati gli stagionali marocchini. Le donne continuano ad essere pagate il 20% in meno, ma proprio per loro c’è stata una novità. «È il fenomeno delle ‘fattore’ – ci spiega Alvaro –, caporali donne, sia italiane che immigrate, che gestiscono gruppi di donne braccianti». E torniamo a parlare di permessi di soggiorno e sanatoria con Giuseppe Grimaldi, antropologo, docente all’università RomaTre, presidente dell’associazione Frontiera Sud che opera in rete con la Caritas.

«Molti non lavorano perché irregolari e quindi a rischio perché per l’emergenza Covid i controlli delle forze dell’ordine sono aumentati. Così tanti hanno tentato con la sanatoria ma con contratti di lavoro falsi pagati a caro prezzo». Omar ha pagato a un imprenditore addirittura 7mila euro ma per ora il contratto non lo ha visto. E come lui almeno altri 80. Alì, 24 anni, ha dovuto addirittura pagare 600 euro per l’idoneità alloggiativa obbligatoria per la sanatoria. Ovviamente falsa. «Gli immigrati hanno coniato una parola per questi comportamenti, lo chiamano ‘approfittaggio’», ci spiega ancora Grimaldi. E anche lui ci ripete quello che abbiamo ascoltato in tutti i luoghi che abbiamo toccato nel nostro viaggio tra immigrati e caporali al tempo del Covid. «La pandemia ha accelerato lo sfruttamento. Dove c’è qui tutta la sicurezza che c’è nel resto del Paese? ». Anche se, aggiunge, «il 90% degli immigrati non sa di essere sfruttato ».

Sfruttamento non solo in agricoltura. Molti immigrati lavorano nei lidi per 20-25 euro al giorno, per spalare la sabbia, aprire gli ombrelloni, fare pulizia. «Pura manovalanza». E al mare sono ricomparsi anche i venditori ambulanti. E anche quest’anno il vescovo di Teggiano-Policastro monsignor Antonio De Luca ne ospita 10, tutte donne, nell’Episcopio di Policastro. Altrimenti finirebbero a dormire sulla spiaggia. Mentre tanti altri vanno alla mensa di Sapri per prendere il cestino per il pranzo. Non le uniche iniziative concrete della diocesi. L’ultima arrivata è la ‘Bottega dell’orefice’, che a Sala Consilina ospita un centro per il disagio psichico. Tra loro anche un ragazzo di 26 anni vittima delle violenze nei campi di prigionia libici.

Avvenire

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