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Il mio nome è Joy

Come meglio celebrare il giorno della Pasqua se non col racconto di una rinascita… e la rinascita di cui oggi vi voglio parlare è quella di Joy, ragazza venuta dalla Nigeria. Un grido di libertà, dopo il tremendo calvario della schiavitù della tratta.

di Francesca de Carolis

La mattina che mi rubarono l’anima, il corpo e il nome
A farmi conoscere la sua storia è stata Alma, Alma Jahollari, amica di Caserta, che… “Quando l’ho incontrata, nella sartoria della cooperativa ‘newHope’, mi ha colpito col suo sorriso. E’ una ragazza dolcissima. Devi parlarne!”. E mi ha regalato il libro nel quale, grazie alla penna di Mariapia Bonanate che ha raccolto le sue parole, Joy si racconta…
“Io sono Joy”, il titolo. E così esordisce. Poi continua: “Io sono Lowet, Glory, Esoghe, Sophia, Mary, amiche che hanno una storia simile alla mia e a quella di migliaia di ragazze nigeriane”. E insiste. “Il mio nome è Joy, non Jessica, come decisero di chiamarmi i miei aguzzini la mattina che mi rubarono l’anima, il corpo e il nome”.

Quante volte abbiamo sentito parlare di tratta di donne, di donne nigeriane, soprattutto… i dati, gli arresti, qualcuna che scompare, qualcuna che si salva… Eppure, “nel buio fuligginoso dell’indifferenza sociale, sono rimaste storie tanto sconosciute quanto sinistramente onnipresenti nelle nostre società globalizzate”, annota papa Francesco, nella prefazione che dona al libro.
Alla men peggio, quel che accade a queste donne pensiamo, con distratta sufficienza, di poterlo immaginare…

E’ invece davvero inimmaginabile tutto quello che può succedere a una ragazza convinta con l’inganno ad abbandonare la sua terra, sottoposta a riti woodoo e poi imbrigliata in una rete infernale dove, come tanti migranti, si è espropriati di tutto, dove non si è più persone, si diventa schiavi, e le donne, prima di diventare schiave del sesso nel paese d’approdo, vengono affamate, stuprate decine e decine di volte, fatte oggetto di violenze inaudite. Benin City, Kano, Agadez, Murzuq, Brach. Tripoli, Misurata… le tappe di prigioni che si susseguono, di padrone in padrone, prima della traversata sui barconi, per essere poi inghiottite da una delle prigioni nostrane. E la prima domanda che affiora, dopo aver letto di tanti tremendi dettagli, è come sia possibile sopravvivere a tanto, e con che lacerazioni dell’anima, quando si sopravvive…
L’ultima prigione a cui è approdata Joy, come tante altre sue compagne, si chiama Castel Volturno, in quel della provincia di Caserta.

Terribili verità inimmaginabili
Non possiamo immaginare. Bisogna leggere, ascoltare le sue parole. Per sapere di terribili verità, ma anche, soprattutto, per guardare con sguardo meno appannato a quello che pure è sotto i nostri occhi, lungo il ciglio di tante nostre strade, dove alla violenza dei “padroni” si aggiunge la nostra violenza… quella di quegli uomini di cui troppo poco si parla, che all’ombra della nostra indifferenza, che diventa in qualche modo consenso, quei corpi chiedono, usano, deturpano…

Quando sei sul ciglio della strada passano in macchina, lanciando acqua sporca e oggetti che possono ferirti, e feriscono ancora più per le parole volgari… Sei sempre terrorizzata che arrivi la polizia, di non riuscire a scappare in tempo… Ti sconvolgono quei padri che portano con sé i figli, a volte poco più che bambini, chiedendoti di farli assistere al loro rapporto sessuale perché possa poi insegnargli come si fa…”

Joy è stata fortunata. Con l’aiuto di un ragazzo africano, che collabora con la questura di Caserta, riesce a scappare… e trova infine accoglienza a “Casa Ruth”, il centro fondato da Rita Giarretta, l’orsolina che tante ragazze ha salvato e aiutato a costruirsi una nuova vita.
“… nel bagno c’era del sapone, degli asciugamani morbidi e un vestito… mentre l’acqua scorreva sulla mia pelle mi sentii rinascere… quando sono uscita dalla doccia Jessica era scomparsa…”

Mai più Jessica, e riappropriandosi del suo nome ritrova “quel corpo che avevo odiato, perché era diventato una merce avariata che puzzava degli odori ripugnanti di chi lo deturpava”.
Non è la prima volta che Alma mi racconta delle ragazze di Casa Ruth. Quando l’ho ringraziata per aver condiviso con me anche questa storia, le si sono riempiti gli occhi di lacrime… E ho capito perché, quando può e come può, anche lei testimonia, racconta, aiuta… lei che non dimenticherà mai, mi ha detto, un’altra ragazza che aveva incontrato un giorno in una stanza d’albergo dove faceva pulizie e che… “non sono riuscita a salvare”.

Era una minorenne, albanese (l’est, altra via di orrendi traffici). “Mi ha fatto tanta tenerezza, mi aveva chiesto aiuto, e mi aveva fatto vedere il suo corpo massacrato… le avevano bruciato un capezzolo, per punizione, per non aver guadagnato un giorno la somma che il suo proprietario esigeva”. Le aveva chiesto aiuto, ma prima che Alma riuscisse a fare qualcosa, è stata uccisa dai suoi carcerieri, che avevano capito… E come non pensare ancora ai clienti, che quel corpo pure avevano continuato a usare, deturpare…

Le ragazze di Casa Ruth
Ancora due parole su Joy. Si affaccia continuamente, nel suo racconto, il pensiero di quel Dio al quale sempre lei si rivolge. “Sono partita dal mio paese pensando di fare la tua volontà, e aiutare la mia famiglia”, ma… “adesso dove sei?”. Dov’era mai quel dio che pure “mi aveva tradito”…
Joy ce l’ha fatta anche perché sorretta, viene da pensare ascoltando le sue parole, dall’immensa forza che è delle donne della sua terra, che l’ha sostenuta finché anche Dio è ritornato, nell’abbraccio di Casa Rut, dove ora la sua nuova vita è continua rinascita.

E allora un pensiero alla vita che risorge qui sulla terra, col ricordo di un’immagine incontrata in non ricordo più quale chiesa, ma che molto mi sembrò significare…
Era una scultura in bronzo. Un Cristo forse appena risorto. Forse già in volo. Sospeso lassù, inchiodato al muro, a un salto dall’altare. A un passo dalla luce della vetrata. Con le mani e le braccia gentilmente scostate dal corpo, una verso l’alto, l’altra verso il basso, come nel gesto gentile di una danza, con l’ampia veste allargata a campana. La prima impressione è stata che la pesantezza di metallo della tunica lo trattenesse ancorato alla terra. Anche se a tratti la spinta contraria dello spazio cavo sotto la veste rigonfia diventava più forte illusione di volo. E il moto immobile di quell’ampia veste mi è sembrato a un tratto sciogliersi nel vorticare senza fine di danza di derviscio, che a un passo dal suolo soffia, ma che la terra mai non abbandona…

E buona Pasqua a tutti.

REMOCONTRO

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