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In Sudan e in Siria continuano le tragedie. E noi lasciamo il Medioriente a se stesso…

di Shady Hamadi

Nella sola scorsa settimana, circa 70 persone sono state stuprate dalle forze sudanesi che sostengono Omar al Bashir, il dittatore al potere da oltre 30 anni. Bilancio lieve se paragonato alle centinaia di morti che, dall’inizio delle proteste cominciate nell’aprile scorso, si contano fra le file dei manifestanti. Dimostrazioni cominciate con una richiesta economica: quella di trovare una soluzione al caro vita e a causa della rimozione del sussidio per comprare il pane, sfociate poi nell’istanza popolare di mettere fine al regime decennale.

A qualche migliaio di chilometri da Khartoum continua invece la guerra in Siria. Settimana scorsa è morto in seguito alle ferite riportate Abdel Basset al Sarut. Un nome che ai più non dirà nulla ma che ai siriani dice molto. Al Sarut, passato a miglior vita all’età di 27 anni, nel 2010 era una giovane promessa calcistica della nazionale siriana under 21. Militava come portiere nelle file della squadra al Karama, di Homs – città martoriata dalla guerra. Nel 2011 il calciatore prende parte alle manifestazioni contro il regime, diventando una icona popolare. Prima, al fianco dell’attrice siriana (alawita) Fadwa Suleiman, invoca un cambiamento pacifico. Poi, a seguito della repressione governativa, fonda una milizia armata e imbraccia il fucile. Il padre e diversi fratelli vengono uccisi per rappresaglia dalle forze fedeli al governo. Sarut, all’inizio aperto a una Siria per tutti i siriani, si avvicina alle idee radicali. E’ l’incarnazione della parabola discendente della primavera siriana, cominciata come movimento pacifico e finita in tragedia siriana.

Le conseguenze, prima per la Siria, oggi per il Sudan, sono visibili nei volti delle persone che lasciano le proprie case in cerca della salvezza. Mentre i conflitti politici che dilaniano questi paesi vengono strumentalizzati da forze politiche europee, anche italiane (guardate le posizioni di Lega e Cinque Stelle su Siria e Sudan). Altra considerazione, forse ancor più banale, è che non abbiamo ancora trovato giornalisticamente lo spazio (i fondi ci sono) per raccontare dignitosamente queste tragedie che ci arrivano filtrate. Dimentichiamo costantemente che solo se siamo informati riguardo quello che accade nel mondo possiamo trovare gli anticorpi al razzismo e alla ignoranza diffusa. Per il momento, lasciamo il Medioriente a se stesso. Continuiamo a celebrarlo solo in un bel ristorante libanese.

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