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L’agonia dei siriani in Libano, intrappolati tra due guerre

di Marina Pupella

Gli scontri al sud alimentano l’incubo del nuovo conflitto. Mentre l’emergenza economica fa crescere il risentimento della popolazione locale: “Ci dicono di tornare al nostro Paese”

In fuga dalla guerra e dalle violenze subite in Siria, i profughi riparatisi in Libano temono ora di ripiombare nell’inferno di un nuovo conflitto, che dal Sud potrebbe estendersi nell’intero territorio. Ma più della guerra, a preoccupare un milione e mezzo di siriani presenti in diversi centri del Paese dei cedri, sono le discriminazioni che subiscono quotidianamente e le incursioni dell’esercito all’interno dei campi, con l’obiettivo di rispedirli indietro. Un piano che risponde alle provocazioni contro l’Ue del premier uscente Mikati. Quest’ultimo, nel 2022, aveva minacciato di espellerli dal Paese “in modo legale”, qualora la comunità internazionale non avesse collaborato al rimpatrio degli sfollati.

«La questione dei rifugiati è diventato un serio problema che il Libano non può più sostenere da solo – spiega Amer Sabbouri, ricco imprenditore sciita della città di Chtaura, situata nella valle della Bekaa-. L’Unione Europea dovrebbe decidersi a trovare una soluzione, che non è quella di dargli del denaro, perché altrimenti continuerebbero a restare qui». La gravissima recessione e l’inflazione balzata nel 2022 al 189,4% hanno contribuito a far precipitare nella povertà la gran parte della popolazione libanese che, se fortunata, lavora guadagnando 50 dollari al mese. Questo, unito alla svalutazione della lira (un dollaro vale oggi 90mila lire libanesi), ha scatenato il risentimento pubblico verso i rifugiati, che pagano pure un affitto ai proprietari terrieri, gente spesso prepotente e priva di scrupoli, per poter vivere in una tenda o in un garage.

«Ci ripetono sempre di tornare da dove siamo venuti, perché qui non ci vogliono. I nostri bambini non possono frequentare le stesse classi dei loro coetanei libanesi e devono recarsi a scuola solo nel pomeriggio, quando le aule sono vuote. In questo modo difficilmente potranno interagire con i locali e sarà utopistico pensare ad un’integrazione in questa terra».

A parlare è Um Hassan, cittadina di Homs, arrivata in Libano con i suoi tre figli nel 2013, che incontriamo nel campo di Tel Abbas, un villaggio della regione di Akkar nel Nord del Libano, a cinque chilometri dal confine siriano. Una ventina di tende e sei garage dove tra serpenti, topi e scarafaggi vivono 150 persone. Sono i volontari dell’operazione Colomba a prestare loro assistenza e supporto già dal 2014, condividendone la quotidianità. «I miei due figli hanno paura, erano piccoli quando a Homs hanno visto morire persone sgozzate – aggiunge Um -.

Guardate queste foto, sono uomini torturati e uccisi all’interno delle carceri siriane. Tra loro c’era anche mio fratello. E’ questo il Paese sicuro, in cui dovremmo tornare? Se la guerra dovesse spingersi fin qui, saremmo come intrappolati, perché indietro non si può andare». L’altra figlia Suzanne, oggi ventenne, è riuscita ad arrivare in Italia grazie ai corridoi umanitari istituiti dalla Comunità di Sant’Egidio. «La crisi attanaglia il Paese, ma la speranza è che passi presto – riferisce Ibrahim Michael Ibrahim, arcivescovo di Zahleh – così come auspichiamo il cessate il fuoco fra israeliani e palestinesi e finalmente stabilità per il Libano”.

Avvenire

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