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Libano, uno Stato in default, una politica malata: così sta morendo il Paese dei cedri

La crisi economica, politica e sociale che sta attraversando in Libano ha causato una terza ondata di emigrazione e quasi 275mila persone hanno lasciato il Paese negli ultimi sei anni.

di Umberto De Giovannangeli

Libano, uno Stato in default, un popolo allo stremo, ostaggio di partiti-avvoltoi che volteggiano su ciò che resta del Paese dei cedri.

Fuga di massa

La crisi economica, politica e sociale che sta attraversando in Libano ha causato una terza ondata di emigrazione e quasi 275mila persone hanno lasciato il Paese negli ultimi sei anni. Lo ha riferito il quotidiano Nidaa al Watan, vicino all’opposizione, secondo il quale il fenomeno si verifica principalmente tra i giovani. Con l’aggravarsi della crisi in Libano, l’Osservatorio sulla crisi dell’Università statunitense di Beirut ha stimato che “il Libano sta vivendo la terza ondata di emigrazione massiccia nella sua storia dopo la prima ondata alla fine del diciannovesimo secolo, quando a quel tempo lasciarono il Paese circa 330 mila persone, e la guerra civile libanese (1975-1990) che spinse all’emigrazione di circa 990 mila persone”. Secondo il rapporto, il 77 per cento dei giovani libanesi sta considerando o sta cercando di emigrare. La disperazione ha inoltre spinto alcuni a ricorrere alle pericolose rotte migratorie verso l’Europa via mare.

Uno dei risultati della crisi definita dalla Banca mondiale “tra le peggiori al mondo” è un calo significativo del Pil da 54 miliardi di dollari del 2018 a circa 19 miliardi di dollari del 2022. Le prospettive di crescita e ripresa dell’economia non sono incoraggianti, con la Banca Mondiale che stima che il Libano abbia bisogno tra i 12 ei 19 anni per raggiungere il Pil del 2017. Inoltre, secondo il Fondo monetario internazionale, l’accelerazione dell’emigrazione di lavoratori qualificati “indebolirà ulteriormente le future opportunità di crescita del Paese”

Quattro filiali di banca in Libano sono state saccheggiate di recente alla periferia di Beirut da gruppi di titolari di conti correnti infuriati perché da quasi quattro anni non possono accedere ai loro depositi a seguito del collasso finanziario del sistema bancario libanese.

Sui social media e sui media libanesi sono apparsi video e testimonianze di attivisti del gruppo “Il grido dei titolari di conti correnti”, una delle piattaforme che riunisce attivisti intenzionati a fare pressione dal basso sul sistema bancario libanese.

Mire di potere

Così un dettagliato report de Il Faro sul mondo: “Il Libano continua a vivere nel perenne limbo del vuoto politico. Da settimane si attendono le nomine finali dei vari blocchi per eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Proviamo ad analizzare le varie posizioni dei leader e movimenti politici libanesi.

Sleiman Franjiyeh

Il capo del movimento Marada, Sleiman Franjieh, tra i candidati alla presidenza della Repubblica, ha chiesto di discutere tutte le candidature in un dialogo nazionale, senza precondizioni da nessuna parte. “Non mi impongo a nessuno. Quando un candidato nazionale è d’accordo e c’è un consenso nazionale su di lui, allora non ci sono problemi per me”, ha affermato durante le celebrazioni per il massacro di Ehden. 

Rivolgendosi al capo del Partito delle Forze libanesi, Samir Geagea, ha dichiarato: “Chiedo a Geagea, sei contro il candidato dell’opposizione ed è un tuo diritto, ma in precedenza ti sei alleato con il candidato di Hezbollah”.

Franjieh ha affermato di avere una visione chiara per tutte le questioni costituzionali, economiche e di altro tipo a livello nazionale, sottolineando di essere impegnato nelle riforme, nell’Accordo di Taif e nella centralizzazione amministrativa al suo interno. “Il presidente è colui che prende una posizione durante il suo mandato e non dopo”, giurando di essere un presidente per tutti i libanesi e non per una fazione specifica.

Hezbollah

Il vice capo di Hezbollah, lo sceicco Naim Qassem, ha ribadito che il blocco parlamentare Lealtà alla Resistenza parteciperà alla sessione di mercoledì e voterà per Franjiyeh, aggiungendo che la sessione non dovrebbe portare all’elezione di un nuovo presidente in conformità con le condizioni attuali.

Lo sceicco Qassem ha sottolineato che una parte politica rifiuta Franjiyeh perché non obbedisce agli ordini degli Stati Uniti, né è coinvolto in omicidi in Libano, né pugnala alle spalle la Resistenza e i suoi martiri. Sua eminenza ha sottolineato che le elezioni presidenziali mirano a raggiungere la salvezza, non a sfidare gli avversari politici.

Michel Aoun

L’ex presidente libanese, il generale Michel Aoun, ha dichiarato tramite il suo account Twitter: “Il nostro sistema è democratico e la nostra costituzione garantisce la libertà di opinione. Di conseguenza, ogni partito politico ha il diritto di scegliere un candidato presidenziale senza essere accusato di tradimento e minacciato (…). Il rispetto degli altri e dei loro diritti è alla base dell’unità nazionale e della convivenza, e chi vuole preservare la patria deve rispettare questi principi”.

Faisal Karami

Da parte sua, il deputato Faisal Karami ha confermato che il blocco del consenso nazionale voterà per Franjiyeh, sottolineando che quest’ultimo è in grado di affrontare le grandi questioni, compreso il ritorno dei profughi siriani in Patria.

Quali scenari per il Libano

Secondo fonti ben informate, i blocchi che sostengono Jihad Azour

non sono riusciti ad assicurarsi i 65 voti necessari al candidato per vincere al secondo turno delle elezioni presidenziali. Le fonti hanno aggiunto che la sessione assisterà a uno dei due scenari: mancanza del quorum nel primo turno o perdita del quorum nel secondo.

Pertanto, le fonti concludono che la sessione non porterà alla vittoria di alcun candidato, ma sarà piuttosto una manovra politica durante la quale ogni candidato determinerà il numero di voti che ha ottenuto finora. Usa e Israele ringraziano”.

Un reportage che spiega molto

E’ quello, molto bello, di Mario Marazziti, uno dei fondatori della Comunità di Sant’Egidio, presente meritoriamente in Libano, pubblicato (9 marzo 2023) su Famiglia cristiana: “[…] È una fotografia terribile di come può diventare il mondo, Beirut. Bellezza, la montagna a pochi chilometri dal mare, si può vedere la neve e il blu del Mediterraneo. Grandi alberghi, ricostruiti dopo la guerra in un paese che è diventato un po’ Disneyland e un po’ Las Vegas per i paesi del Golfo e i petrodollari: perché quello che è proibito in altri paesi, anche se straricchi, a Beirut, invece, si trova. Alcool, gioco, esseri umani, per ogni servitù, abuso e capriccio. Poveri e centinaia di migliaia di rifugiati e profughi, sono un bacino inesauribile, e aumentano le possibilità di abuso. Molte gru, una parte della città e dei saliscendi con mura segnate, condizionatori d’aria e parabole, ma gli scambiatori caldo-freddo muti o arrugginiti. Migliaia di balconi e tende polverose che chiudono alla vista l’interno della casa. Anche da questo si distinguono le case delle famiglie musulmane, soprattutto sciite, da quelle degli altri. Barbieri e parrucchieri ovunque. Ma anche i grandi volti appesi per le strade nei quartieri meno centrali: martiri, vittime, o semplicemente persone conosciute nel quartiere che sono morte.

Sono già quattro le generazioni di profughi palestinesi, ma è difficile dire quanti sono davvero.Ne risultano registrati 479.000 all’Unrwa, più di 200.000 nei 12 campi esistenti. Negli anni sono cresciuti a dismisura, case misere, superfetazioni, a riempire tutti gli spazi e sopraelevando, mangiando tutto lo spazio, senza fognature. Molti dormono quando gli altri vanno a lavorare, perché per tutti non c’è spazio, neppure dormendo sui materassi per terra. Era già così all’inizio della crisi e guerra siriana. Dopo 12 anni è peggio. Anche quando fa 45 gradi fuori. Molti posti lasciati vuoti da chi se ne è andato – per questo non si sa se i palestinesi davvero siano invece 300.000, o 173.000 – a seconda delle fonti – sono riempiti dai profughi siriani, e 35 mila sono i “nuovi” profughi palestinesi che erano ospitati prima proprio in Siria.  

Lo Stato è insolvente, e le banche hanno congelato e sequestrato i depositi di tutti. Ci sono state rapine a (finta) mano armata, con armi giocattolo, semplicemente per farsi dare allo sportello più di 200 dollari, che è la cifra massima mensile concessa dagli istituti anche a chi ha migliaia di dollari sul suo conto. È il modo dio fare cassa, con i depositi in valuta. Questo ha creato problemi anche a chi, in Siria, riceveva da lì le donazioni per sopravvivere, anche ai religiosi, alle Chiese, alle Ong, accomunati al destino generale.

I profughi siriani in Libano, per l’Unhcr sono un milione e mezzo, registrati 825.000. La popolazione stimata nel 2017 era di 6 milioni di abitanti. Ma i numeri in Medio Oriente ballano sempre. Non c’è un censimento da molto tempo, perché potrebbe squilibrare la già instabile geometria del potere e la forma di governo. Il Parlamento è formato da 64 deputati cristiani e 64 musulmani o drusi. La demografia è cambiata da tempo, ma meglio non toccare un compromesso che ha permesso di chiudere l’ultima guerra del Libano. L’ultima. Perché guerra civile è iniziata nel 1958, trasformando la Corniche della bella vita e dei latin-lover in un campo di battaglia. I libri riportano due anni, 1975-76 al Prima guerra civile, poi quella del 1978, l’operazione Litani, e la vera e propria Guerra del Libano del 1982, segnata dalle stragi di Sabra e Chatila, dagli attentati alle ambasciate, il fronte dentro Beirut, la presenza dei caschi blu e la Missione di pace guidata dall’Italia, mentre si è sviluppata la Seconda guerra civile libanese, fino al 1990. Ma non è finita lì. Lo sappiamo. La guerra del Libano meridionale si è sviluppata in contemporanea, dal 1993 al nuovo millennio, e poi, una all’anno, dal 2006, la Seconda Guerra del Libano, poi il “conflitto libanese” del 2007 tra l’esercito libanese e i gruppi islamisti e quello del 2008, per poi fare parte dello scenario destabilizzato della guerra in Siria, dal 2011. Fino ad oggi, fino a domani. Fino a quando?

Il Libano resta un miracolo, ferito, dissanguato. Come un uomo, una donna, che vive senza alcuni organi vitali, che autoproduce anticorpi, dove i migliori e i più abbienti, quelli che hanno possibilità sono altrove, mantenendo un piede nella vecchia casa. Un mondo di persone speciali non aiutato abbastanza dall’Occidente e dal resto del mondo ad essere quello che è: nonostante tutto un luogo di possibile democrazia e vita tra genti e religiose diverse. Se non si vince questa sfida della storia in Libano, difficile anche il pluralismo, la convivenza, la diversità, un futuro per i cristiani in Medio Oriente.[…].  Difficile camminare per strada senza qualcuno che chieda, che offra, che speri in una briciola. I libanesi, anche quelli di livello basso, in qualche misura sono tutti “banchieri”, commercianti, cambiavalute, in qualche punto del loro Dna. Ma l’inflazione da più anni è 220, 200, 160, 123 per cento.

Gli affitti costano 4 volte rispetto a due anni fa, il costo dei trasporti, in 10 anni, è aumentato 50 volte di più, l’insalata costa 500 volte di più. Nonostante questo, dalla Siria arrivano tanti in motocicletta o in miniscooter col rimorchio a comprare o a vendere bombole di gas, taniche di benzina e di olio di semi, perché a Damasco o a Beirut, alternativamente, non se ne trovano abbastanza, anche se il mazut, il gas di bassa qualità di una bombola per il riscaldamento, è salito a 20 dollari in Libano e in teoria, da 8 a 17 dollari in Siria. Ma è un traffico che va nelle due direzioni. Uno stipendio mensile che valeva 500 dollari adesso ne vale circa 50, a Beirut.

Ovunque in qualche casa, e nei campi di casette in muratura, ci stanno profughi siriani, che pagano caro e bruciano i soldi con cui sono venuti via. I palestinesi possono lavorare legalmente solo nei campi. I siriani possono stare, ma costa rinnovare il permesso di soggiorno temporaneo e il lavoro è alle condizioni offerte, in nero. È una non-vita. Non si può tornare indietro non perché è vietato, non solo per non fare un servizio militare lungo e da tempi di guerra, ma perché non c’è dove tornare. Non si può andare avanti perché è vietato, a meno di non rientrare nell’infinitesimale “ricollocamento” Onu o nel “Corridoio Umanitario” libanese della Comunità di Sant’Egidio.

È dal 2016, 2017 che il Libano è uno degli “hub”, da dove la Comunità ha creato per le famiglie più vulnerabili tra le tante la possibilità di venire in Europa legalmente. Con i documenti a posto. In aereo e senza trafficanti umani. Insieme, adulti e bambini. E che prima di arrivare, in Italia – ma anche in Belgio, Francia, Andorra, San Marino, e qualcuno in Germania, in Spagna in altro modo- c’è chi si è organizzato per accogliere, accompagnare, non lo stato, ma la società civile: famiglie, associazioni, parrocchie, persone. In questi anni 7000 persone che hanno ripreso a vivere, lavorano, dopo un anno, un anno e mezzo, parlano la lingua e restituiscono aiutando gli altri, una integrazione che funziona e che offre un modello integrativo all’accoglienza “di stato”, fortemente deficitaria sul piano dell’integrazione. Tanti, pochi? In un libro, La Grande Occasione. Viaggio nell’Europa che non ha paura, racconto che, “purtroppo”, questo è diventato praticamente l’unico canale per non rischiare di morire nel Mediterraneo, come a Cutro, o per non infliggere migliaia di chilometri di cammino a bambini che hanno conosciuto da quando sono nati solo la guerra: perché il ricollocamento internazionale è bloccato, per i contenziosi tra gli stati.

E allora è l’unica speranza e quella speranza piccola tiene in vita gli altri che aspettano in questo limbo dove è fatica vivere, anche mangiare, andare a scuola, avere un letto…”.  

Il titolo del reportage è: “Libano, la soffocante morsa di crisi economica, politica malata e profughi”.

Sintesi efficace per raccontare un Paese allo stremo, messo in ginocchio da una politica onnivora e da politici sciagurati, molti dei quali eterodiretti dall’esterno. Perché in Libano si combatte da sempre una “guerra per procura” che si dipana tra Damasco, Riad, Teheran, Gerusalemme…

Globalist

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