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Mi chiamo Jamlo Madkam, sono indiana

ai tempi del coronavirus

di Maria Luigia Alimena

Anche nel mio Paese è scoppiata la pandemia da Coronavirus.
Il 14 aprile avrebbe dovuto terminare il lockdown promulgato dal governo di Nuova Delhi, ma hanno deciso di continuare, siamo in piena emergenza.

Lavoro in un campo di peperoncini nel villaggio di Perur. Poche rupie al giorno, ma ridanno dignità alla mia famiglia e tengono me lontana dalle violenze.

Non posso più restare qui, non si lavora, i soldi non bastano, bisogna tornare nel mio villaggio.
Ci avviamo tra le montagne per evitare i controlli. Con me mio cognato ed altri. Stiamo bene, ma non possiamo restare, abbiamo fame ed i soldi non bastano per restare.

Non ho mangiato, ho vomitato per i crampi allo stomaco, mi fanno male le gambe.
Sono piccola i miei passi non sono come i loro, ma non posso fermarmi.
Ancora qualche altro chilometro, poi saremo a casa. Resteremo a casa, saremo al sicuro.

Ecco si penso alla casa, la mia casa.

Sono stanca, non ho le forze, mi accascio a terra. Qualcuno mi chiama:Jamlo, jamlo!
I suoni sono lontani.
La mia vita mi passa davanti.
Ho sognato velocemente.
Ho conosciuto i dolori precocemente.

Alla mia età in India si è in età da marito.
Alla mia età in India si è in età da lavoro.
Io avrei solo voluto studiare e giocare come tutti i bambini del mondo.

Mi chiamo Jamlo, avevo 12 anni ed avrei voluto essere considerata solo una bambina.

Jamlo è morta stremata dopo aver percorso 320 km a piedi.

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