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Multinazionali in Africa: lo sfruttamento che spiega perché è così povera

Ogni anno una quantità enorme di denaro lascia l’Africa per aumentare gli utili della multinazionali o entrare in conti correnti nei paradisi fiscali. Soldi sottratti a scuola, sanità e, in definitiva, alla crescita del continente. Lo denuncia la Conferenza Onu su economia e sviluppo

di Franca Roiatti

da Ouagadougou, Burkina Faso

L’Africa perde ogni anno quasi 90 miliardi di dollari (75,8 miliardi di euro): soldi che, invece di essere spesi per l’istruzione, i servizi sanitari o l’economia in generale, finiscono per ingrossare i profitti delle multinazionali o conti correnti nei paradisi fiscali.

Un’emorragia di capitali che, secondo la denuncia contenuta in un rapporto della Conferenza delle Nazioni Unite sull’economia e lo sviluppo (Unctad), è pari alla somma degli investimenti diretti esteri e degli aiuti allo sviluppo che ogni anno arrivano nel continente.

Flussi finanziari delle multinazionali in Africa
La cifra comprende flussi finanziari di diversa provenienza.

«Si va dalle fatture falsate, all’evasione ed elusione fiscale, fino alla corruzione e ai proventi dei traffici illeciti dalla droga agli esseri umani, dalle materie prime alle specie protette».

A riassumere così la situazione per Osservatorio Diritti è Rahul Mehrotra, ricercatore al Graduate Institute di Ginevra, parte di un consorzio di università impegnate nel progetto Curbing Illicit Financial Flows from Resource-Rich Developing Countries (Ridurre i flussi finanziari illeciti dai paesi ricchi di risorse), finanziato dalla Cooperazione Svizzera e dal Fondo nazionale svizzero per la ricerca scientifica.

Esempi tipici di questo fenomeno sono la dichiarazione di un valore più basso delle merci per pagare meno imposte sull’esportazione, ma anche il trasfer pricing, la pratica attraverso le quali le multinazionali con sede in stati dalla fiscalità “benevola” concedono prestiti o vendono beni e servizi alle proprie filiali che operano negli altri paesi. Saldare quel debito o pagare quei beni e servizi significa assottigliare i profitti e quindi l’imponibile per le tasse richieste dai governi locali.

Foto: Ollivier Girard/CIFOR (via Flickr)

Multinazionali in Africa tra evasione ed elusione fiscale

«I flussi finanziari illeciti sono un problema multidimensionale, ed è molto difficile stimarne l’entità. Per questo la cifra reale potrebbe essere molto diversa», precisa Mehrotra.

«Inoltre si discute ancora su quali siano le componenti da tenere in considerazione, solo le attività illegali o anche quelle illecite? Esiste un’intera industria di esperti in ottimizzazione fiscale che aiuta le imprese a strutturare il loro business in modo da pagare meno tasse possibili. In questo caso, molti si chiedono, siamo di fronte a evasione, quindi un’attività illegale, o alla capacità sfruttare carenze legislative?».

L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse) ha calcolato che questi meccanismi di elusione fiscale, le cosiddette pratiche Beps (Base erosion and profit shifting), costano ai paesi di tutto il mondo dai 100 ai 240 miliardi di dollari (84,2- 202 miliardi di euro) all’anno in mancate entrate, pari al 4-10% delle tasse globali sul reddito d’impresa.

Miniera d’oro in Burkina Faso – Foto: Ollivier Girard/CIFOR (via Flickr)

Sfruttamento risorse minerarie in Africa sotto accusa
Nel suo rapporto, l’Unctad evidenzia come 40 miliardi di dollari (33,6 miliardi di euro), circa il 45% del totale dei flussi finanziari illeciti dall’Africa, siano riconducibili al commercio di materie prime, soprattutto di oro.

I canali seguiti per defraudare gli stati produttori delle entrate legate al metallo prezioso sono sostanzialmente due: la sottofatturazione delle quantità esportate e il contrabbando.

Uno studio condotto nell’ambito del progetto Curbing IFFs ha rivelato che tra il 2012 e il 2017 il valore dell’oro importato in Svizzera da Sudafrica, Mongolia e Burkina Faso è stato sottovalutato di almeno 21,7 miliardi di franchi svizzeri (circa 20 miliardi di euro). Una cifra che potrebbe celare un trasferimento illecito di fondi, anche se, sottolinea Mehrotra, «la mancanza di statistiche affidabili sulle transazioni rende difficile determinare se le discrepanze celino davvero un illecito e quale sia la sua entità».

L’oro rischia di finanziare il terrorismo in Africa
Un rapporto dell’ong svizzera Public Eye ha svelato già qualche anno fa come una parte dell’oro estratto nelle miniere artigianali del Burkina Faso esca sottobanco dal paese e, attraverso il vicino Togo, che di fatto non impone tasse, arrivino in Svizzera, uno dei principali centri mondiali di raffinazione del metallo prezioso.

Un’inchiesta della Reuters ha confermato come ogni anno «oro per un valore di svariati miliardi di dollari» venga esportato dall’Africa attraverso gli Emirati Arabi Uniti, sfuggendo alle imposte dei paesi produttori.

Uno degli scenari più preoccupanti avanzati tra gli altri dall’Ocse e dall’ong International Crisis Group è che l’oro diventi fonte di finanziamento del terrorismo. In alcune aree del Sahel, gruppi armati di matrice jihadista controllano già alcune miniere artigianali.

All’est del Burkina Faso sarebbero «almeno una quindicina», secondo Mahamadou Sawadogo, ricercatore esperto di questioni di sicurezza che a Osservatorio Diritti spiega: «I miliziani si fanno pagare dai minatori per accedere ai siti e hanno una prelazione sull’acquisto dell’oro, che può lasciare facilmente il paese attraverso corridoi controllati da criminali e jihadisti». Attacchi diretti contro siti artigianali o contro pattuglie dell’esercito che operano nelle vicinanze di miniere testimoniano un interesse crescente verso il metallo prezioso.

Perché l’Africa è povera: tra i motivi le difficoltà nel contrasto all’evasione fiscale
L’esportazione dell’oro è diventata rapidamente una delle voci più significative della bilancia dei pagamenti del Burkina Faso, arrivando a soppiantare il cotone, ma le sfide che il paese si trova di fronte nella gestione di questa risorsa sono ancora molte.

«Il settore estrattivo beneficia di una serie di esenzioni fiscali molto favorevoli, che riducono notevolmente i potenziali guadagni per le casse dello stato», riassume a Osservatorio Diritti Eli Kaboré, giornalista economico esperto di materie prime.

«E per l’amministrazione pubblica è molto difficile anche riuscire a recuperare quanto ufficialmente dovuto. Nel 2015 il Burkina Faso si è dotato di una nuova legge sulle miniere che, tra le altre cose, ha creato un fondo per lo sviluppo locale con cui realizzare interventi nei comuni dove si trovano le miniere, alimentato da tasse sull’attività estrattiva. Dei quasi 30 miliardi di Franchi CFA (oltre 45,7 milioni di euro) che le società avrebbero dovuto pagare tra il 2017 e il 2019, solo il 9,47 per cento è stato effettivamente versato».

Alcune imprese invocano la clausola di stabilità, inserita nei contratti per proteggere gli investitori da cambi sfavorevoli di regime fiscale successivi alla stipula, «ma i versamenti al fondo ne sono esclusi», insiste Kaboré, sottolineando un altro aspetto, che è il cuore del problema in molti paesi in via di sviluppo: la mancanza di risorse e competenze delle amministrazioni pubbliche per poter contrastare l’evasione fiscale.

Il rapporto di una commissione parlamentare d’inchiesta sulla gestione delle concessioni minerarie e la responsabilità sociale delle imprese estrattive in Burkina Faso ha evidenziato come ci siano quattro agenti responsabili di controllare tutti i siti artigianali del paese (149 censiti, ma sicuramente di più) e come la loro «mancanza di motivazione» sia facilmente spiegabile dal fatto che un ingegnere impiegato in una società mineraria guadagni «10 volte» il suo omologo che lavora per lo stato.

Container ad Addis Abeba, Etiopia – Foto: Abrham Grizaw (via Flickr)

Multinazionali che sfruttano l’Africa: cosa si può fare
Per arginare questa emorragia di ricchezza dai paesi in via di sviluppo esistono risposte «di lungo periodo, ma anche misure adottabili nel breve termine», spiega a Osservatorio Diritti Irene Musselli, ricercatrice al Centro per lo Sviluppo e l’Ambiente dell’Università di Berna, membro del progetto Curbing IFFs.

«Ci sono soluzioni già adottate, come porre sigilli elettronici ai container per rendere più difficile manipolarne il contenuto. La tecnologia blockchain potrebbe contribuire a evitare la falsificazione dei documenti di viaggio delle merci e le frodi sui dazi».

Il vero nodo, tuttavia, è l’assetto giuridico internazionale, e le sue pieghe. «Si deve lavorare sulla trasparenza dei dati bancari e dei registri societari, per permettere di stabilire i veri beneficiari dei profitti», aggiunge Musselli. «Le multinazionali sfruttano le norme fiscali internazionali per pagare meno tasse, ma ci sono principi alla base di qualsiasi legge per impedirne l’abuso. L’applicazione del diritto è un atto politico che fa emergere le disparità di competenze e risorse tra imprese e governi».

Tuttavia alcuni paesi hanno cominciato ad adottare misure per impedire la sotto fatturazione, applicando le tasse su prezzi di riferimento internazionali invece che sul valore delle merci dichiarato dalle imprese. «Una delle risposte potrebbe essere tassare le multinazionali sulla base della presunzione di profitto», conclude Musselli.

«Ma il consenso politico è ancora tiepido. L’Ocse si sta muovendo, ma ritengo che l’azione delle Nazioni Unite nel frenare i flussi di capitali illeciti debba essere più incisiva».

Su mandato del G20, l’Ocse ha elaborato una “Convenzione multilaterale per l’attuazione di misure relative alle convenzioni fiscali finalizzate a prevenire l’erosione della base imponibile e lo spostamento dei profitti” con lo scopo di stabilire e prevenire abusi, evasione ed elusione.

La convenzione è entrata in vigore ufficialmente nel 2018. Ulteriori passi, soprattutto per affrontare il tema della tassazione dell’economia digitale, sono in discussione e sono stati affrontati anche al recente vertice virtuale dei leader del G20 di Riyadh, Arabia Saudita, il 22 novembre.

Osservatorio Diritti

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