Browse By

Myanmar-Birmania, strage di bambini: dai golpisti l’ordine di rapire i figli dei ribelli

Il rapporto al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite sulle atrocità ai danni dei minori. Il 7 settembre il governo ombra che si oppone ai militari ha proclamato la “guerra di difesa”, ricorda Repubblica, per contrastare le repressione violenta del regime. E Raimondo Bultrini, reporter di lusso dall’Asia, racconta di Battaglioni inviati nelle aree dove i guerriglieri etnici addestrano i giovani alla battaglia e di quei sequestri folli denunciati dall’Onu.

di Raimondo Bultrini

La denuncia delle nazioni unite
«Le condizioni nel Myanmar hanno continuato a deteriorarsi», e «gli attuali sforzi della comunità internazionale per fermare la spirale discendente degli eventi semplicemente non stanno funzionando». Nel suo ultimo rapporto al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite il relatore Tom Andrews ha accennato ad alcuni degli agghiaccianti fatti di cui è venuto a conoscenza dall’interno del paese a 8 mesi dal golpe.
Da luglio a oggi la giunta ha ucciso almeno 75 bambini di età compresa tra 14 mesi e 17 anni, e secondo Andrew ai soldati è richiesto regolarmente perfino di rapire i figli, oltre ai parenti stretti, dei sospetti ribelli. «Ho ricevuto rapporti credibili su 177 casi», ha detto. «Queste vittime di arresti arbitrari includono bambini molto piccoli, di 20 settimane
.

Colpo di Stato sempre più cruento
Con oltre 1100 vittime della repressione, 8.000 arresti e un numero incalcolabile di torture, il regime tenta di controllare un paese che a differenza del passato e dei primi mesi dal golpe ora si sta ribellando anche con violenza sia nelle città che nelle campagne dove sono sorte numerose “Forze di Difesa popolari”. A rendere formale questa lotta armata ancora disorganizzata ma sempre più attiva è stato un appello a suo modo “storico” del governo ombra “di unità nazionale” del Myanmar o Nug, che il 7 settembre per bocca dei suoi leader ha dato ufficialmente inizio alla resistenza popolare contro il regime. È stata definita letteralmente una “guerra di difesa”, ma prevede inevitabilmente una risposta violenta alle violenze, oltre a scioperi, a varie forme di protesta e a boicottaggi di servizi pubblici, perfino se a scapito della stessa popolazione.

‘Guerra di difesa’ e Aung San Suu Kyi
Dal giorno dell’annuncio pubblico molti si sono domandati se la presidente onoraria del Governo ombra Aung San Suu Kyi fosse al corrente della risoluzione dei suoi compagni, una mossa contraria a tutti i principi di non violenza da lei espressi in tutti gli anni della prigionia, e anche dopo il ritorno in scena come oppositrice e infine leader de facto di un governo ibrido civili-militari.
Due giorni fa il suo avvocato, che la assiste nelle molte cause penali intentate dai militari golpisti, ha riferito una conversazione avuta di recente con Lady Suu Kyi sulla legittimità di una “guerra di difesa”. “Ha detto che lei non si rivolta mai contro i desideri della gente”, riferisce Khin Maung Zaw, ma ne potrà parlare “solo dopo averne discusso con altri dirigenti del partito”. Cosa improbabile quantomeno a breve visto che molti sono agli arresti come lei o esuli.

Resistenza armata soprattutto etnica
Già prima del bellicoso annuncio del NUG, “la gente” di Suu Kyi ha fatto capire in tutto il paese la sua ostilità verso il golpe militare di febbraio. Ma nonostante le gravi perdite tra le file dei militanti e i sanguinari abusi dei soldati, le azioni violente sono state inizialmente poche e timide, finché non sono scesi in campo alcuni dei gruppi etnici da decenni in guerra latente o effettiva contro l’esercito della maggioranza birmana. I gruppi armati delle minoranze si sono detti disposti a colpire obiettivi comuni e addestrare alla guerriglia giovani birmani ricercati dalla polizia e dall’esercito per aver preso parte o guidato le proteste.
Specialmente negli stati Kachin, Karen e Chin fin da marzo le azioni militari dei gruppi separatisti hanno inferto piccole anche se significative ferite al potente esercito dei tadmadaw quasi tutti di etnia bamar, mentre si sono moltiplicati i gruppi delle Forze di Difesa spesso dotati di armi rudimentali. Ma è dall’annuncio del 7 settembre che il quadro del conflitto ha preso a degenerare e i generali golpisti hanno aumentato l’invio di interi battaglioni militari nelle aree ribelli, incuranti di colpire la popolazione civile.

Ferocia e rappresaglia dei generali
Lunedì scorso una famiglia di quattro persone è stata sterminata da un attacco contro un villaggio a nord di Mandalay quando bombe e armi da fuoco hanno colpito la loro casa dove alcuni dei figli rimasti orfani sono rimasti gravemente feriti, compreso un bambino di due anni che ha avuto le dita della mano amputate da una scheggia. Ma è nello Stato settentrionale Chin che i militari birmani hanno concentrato l’attacco più pesante degli ultimi giorni, costringendo gran parte della popolazione vicino al confine indiano a fuggire dai combattimenti tra le varie formazioni separatiste armate.
I militanti della Chin Defence Force avevano dichiarato di aver ucciso nei giorni precedenti 30 soldati birmani e – certi della rappresaglia – molti dei 10mila abitanti di Thantlang si sono rifugiati nei boschi attorno. Almeno 5.500 hanno però passato la frontiera con lo Stato di Mizoram da tempo affollato di profughi dal destino incerto mentre immagini terrificanti di edifici in fiamme facevano il giro dei social, assieme a notizie come quella della morte di un pastore cristiano ucciso a colpi di arma da fuoco mentre cercava di spegnere un incendio, e di numerose altre vittime civili incappate nei conflitti a fuoco.

Aerei da combattimento
La giunta ha attribuito la responsabilità degli incidenti nello stato Chin a circa 100 “terroristi” che hanno attaccato i soldati di una caserma, ma non ha esitato a utilizzare aerei da combattimento per terrorizzare l’intera popolazione civile. E’ la stessa tecnica utilizzata in passato negli stati Karen, Kachin e Karenni, dove ieri è morto in battaglia uno dei numerosi giovani studenti che dalle città si stanno trasferendo nella giungla per addestrarsi a combattere con la resistenza. Sai Bhone Min Thant aveva 20 anni e fin dalla primavera scorsa era stato uno dei leader delle proteste contro il golpe prima di entrare nel mirino dei militari e darsi alla macchia per unirsi al Karenni National Defence Force a centinaia di km dalla sua casa.
Nel villaggio Kachin di Ta Hket pochi giorni fa il gruppo separatista del KIA ha fatto saltare una mina contro una pattuglia dell’esercito birmano uccidendo e ferendo un numero imprecisato dei 200 soldati. Per ritorsione cinque colpi d’artiglieria hanno colpito il quartier generale di Laiza dell’ala politica indipendentista dei Kachin, il KIO, dopo che poche ore prima era stato attaccato un check point dei ribelli al centro della capitale Kachin di Myitkyina.

Bersagli e dubbi sulla resistenza armata
Tra gli obbiettivi della resistenza ci sono soprattutto le infrastrutture di proprietà militare come le antenne della società di telecomunicazione della giunta Mytel. Ma è ormai un conflitto esteso che ha ripreso vigore da due settimane, quando il NUG ha invitato le Forze di difesa popolare a prendere di mira “ogni pilastro del meccanismo di governo della giunta”.
La scelta di abbandonare la via non violenta è stata criticata da alcuni membri del Consiglio speciale per il Myanmar alle Nazioni Unite come Yanghee Lee, ex relatrice sui diritti umani secondo la quale è stata una mossa «sventurata, anche se è comprensibile la frustrazione della gente dopo sette mesi di brutalità da parte della giunta e di inerzia da parte dell’organizzazione internazionale». «Ma la violenza – ha detto un altro consigliere, Chris Sidoti – è la causa della sofferenza del popolo del Myanmar, non la soluzione, e temiamo per quello che accadrà a seguito di questa decisione».

Onu, comunque sostegno alla società civile repressa
Nella sua ultima relazione al Consiglio Onu Tom Andrew ha evitato di commentare su ruolo e metodi della resistenza al golpe, sottolineando che «le organizzazioni della società civile del Myanmar stanno salvando vite, hanno bisogno e meritano il nostro sostegno. Per questo secondo lui è necessario che la comunità internazionale faccia un “cambiamento di rotta” se vuole risolvere una crisi che vede oltre alle violenze quotidiane più di 230.000 civili sfollati a causa della repressione militare».
«Il piano di risposta umanitaria delle Nazioni Unite per il Myanmar del 2021 – ha spiegato – ha ricevuto fino ad oggi solo il 46% dei fondi richiesti. Possiamo e dobbiamo fare di meglio».

REMOCONTRO

Please follow and like us: