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Reportage da Taiz. I bambini dello Yemen in guerra trovano la pace andando a scuola

Ragazze yemenite alla scuola di Taiz – Battaglia

di Laura Silvia Battaglia 

In otto anni di conflitto sono stati superati i 377mila morti, il 70% di questi aveva meno di cinque anni. Le speranze della popolazione appese ai rapporti tra Iran e Arabia Saudita

I gironi dell’inferno sono meno affollati della città di Taiz. E anche meno violenti, forse. Non facciamo nemmeno in tempo ad abituarci all’idea di esserci staccati dal paesaggio paradisiaco che precede la seconda città più grande dello Yemen – piante di fichi d’India a grappoli su pendii scoscesissimi, agavi, felci, alberi da caffè, pannocchie e cactus verticali sui dolmen di roccia, monitorati dall’alto da falchi in ricognizione – che tre ragazzi neri, abbarbicati al camion della spazzatura, cambiano completamente la nostra prospettiva.

Si contendono l’unico predellino rettangolare sul retro del camion e si abbracciano tra loro. Uno, per avere un appoggio migliore, morde l’orecchio del vicino e lo fa cadere, mentre il camion è quasi in corsa. La vittima si rialza dolorante sull’asfalto, gabbato e senza possibilità di raggiungere gli altri, mentre il gruppo se la ride e prosegue la sua corsa verso la discarica, attaccato al camion-pattumiera.

Sembra un gioco ma è una violenza tra adolescenti, le vittime assolute di questa guerra che è appena entrata nel suo ottavo anno. Taiz, la città al centro del Paese, simbolo concreto di una Repubblica che sopravvive a sé stessa, ormai profondamente divisa e spaccata tra le milizie del Nord e del Sud dello Yemen, è il luogo che, in assoluto, paga il prezzo maggiore. Lungo la front–line che divide in due metà distinte questa città verde e collinare, e insieme commerciale, nel suo cuore più interno chi deve avvicinarsi ai punti più presidiati si addentra tra le rovine dei palazzi atterrati dai bombardamenti e ridotti a gruviere dall’artiglieria.

Si avvicinano solo vecchi, donne e bambini, sperando nella clemenza del cecchino di turno, pregando che sia lontano e che si impietosisca per una tanica gialla di acqua portata in bella vista sulle spalle o sulla carriola.

«Va così da otto anni – lamenta Umm Aisha, che sbuca e poi si perde con il suo povero involto di plastica sulle spalle tra i pilastri di cemento abbandonati al loro destino diagonale –. E non mi faccia perdere tempo, qui è meglio scivolare via veloci», sibila, da sotto il niqab integrale. A Taiz i civili hanno più paura che altrove, in una guerra che ha superato i 377mila morti, dove il 70% dei decessi, secondo l’Undp, riguarda bambini sotto i cinque anni d’età.

Se il conflitto si prolungherà fino al 2030, si ritiene che le perdite di vite umane potrebbero arrivare a 1,3 milioni di persone, senza contare che 15,6 milioni, ad oggi, vivono in uno stato di estrema povertà. Nato come un conflitto locale tra le milizie Houthi del Nord, affiliate all’Iran, e il governo centrale dell’allora presidente Mansour Hadi, è diventato rapidamente una guerra regionale, quando il 26 marzo del 2015 la Lega Araba a guida saudita intervenne su richiesta dello stesso presidente e iniziò a bombardare il Paese, colpendo l’attuale capitale del Nord, Sana’a.

Taiz, esattamente al centro del Paese, tra la direttrice che collega il Nord alla punta Sud di Aden, si è trovata tra due fuochi, anche perché sede nevralgica del sostegno ai Fratelli Musulmani yemeniti: il partito Islah a cui appartiene buona parte dell’establishment che fece la rivoluzione del 2011, odiatissimo dagli Houthi e nemmeno particolarmente amato da milizie locali affiliate agli Emirati Arabi Uniti, dette “Brigate del Gigante”.

Teatro di una costante e feroce battaglia tra le due parti in guerra, la città di Taiz è occupata da entrambi gli schieramenti e, paradossalmente, nella recente tregua di sei mesi, conclusasi lo scorso ottobre, è quella che ha meglio beneficiato delle distensioni. Ora che Arabia Saudita e Iran paiono avere riaperto le relazioni diplomatiche, c’è chi spera fortemente in un cambio di passo.

Abdulkafi al-Nasser è autotrasportatore: «Non ne posso più di dovere aggirare la città per destreggiarmi nelle varie zone occupate, senza contare le mazzette che vengono richieste al passaggio delle merci ai check point. Guardiamo alla fine della guerra come una liberazione da centinaia di problemi quotidiani».

La città è comunque una bolgia di auto, merci, questuanti. Entrando a Taiz da Nord, e rimanendo nella zona a controllo Houthi di Warraq al-Qaida, campeggiano tutti i simboli del consumismo di guerra: cartelli giganti che pubblicizzano l’efficacissimo detersivo Crystal, totem con i led per annunciare la grande novità della rete 4G Yu in Yemen e, per chi si accontenta solo delle telefonate, gli sconti della Yemeni Mobile sulle Sim card multiple per la famiglia.

Sotto le luci della città, una pletora di carretti, vacche, banane, giocattoli di plastica e bambini scalzi di circa quattro anni di età, trascinanti qualsiasi oggetto. Poco più lontano, al primo check-point, stazionano i soliti adolescenti con la doppia casacca, masticanti la droga locale in foglia, il qat: sotto vestono l’uniforme verde scolastica, sopra sfoggiano la mimetica grigio-azzurra dell’appartenenza Houthi.

Quando lasceremo la città, al primo check point della zona lealista, dopo un lungo viaggio tra i torrenti di acqua naturale chiamati wadi, canneti e bufale, in un paesaggio incontaminato, vedremo la stessa scena con colori diversi: adolescenti spaventati, stavolta chiaramente soldati lealisti, con la mimetica grigio-verde nell’oscurità della prima sera. L’unica differenza è che qui non si mastica: ma i soldati tredicenni la implorano con gli occhi, se l’auto ormai autorizzata al passaggio dal Nord ne trasporta una certa quantità.

Questi adolescenti, privati della loro precedente infanzia, sono stati la carne da cannone di questa guerra e lo saranno ancora per le milizie che continueranno a presidiare i territori, da una parte e dall’altra, anche se la pace si farà. L’Unicef lo denuncia da anni, ma al 2023, almeno 4mila bambini sono stati reclutati dalle parti in lotta: «Le famiglie vivono in un circolo vizioso e continuo di privazione della speranza», dichiara Peter Hawkins rappresentante dell’agenzia delle Nazioni Unite nel Paese.

Chi vive a Taiz lo sa bene e, con le poche risorse che ha a disposizione, prova a trovare una soluzione empirica ma efficace. Il maestro Adel Al Shuraihi ha fondato cinque anni fa la scuola al-Nahda, per salvare i bambini da morte certa, mentre attraversavano la front-line al mattino. La scuola nasce, infatti, dalla necessità di creare una struttura al di qua della linea del fronte, in un quartiere di Taiz letteralmente diviso a metà tra e forze lealiste e gli Houthi.

«Una volta iniziata la guerra, la scuola storica del quartiere diventava inaccessibile, perché i bambini avrebbero dovuto attraversare la front-line per recarvisi – spiega il maestro–. E i genitori hanno iniziato a non mandarli più a scuola. Come dare loro torto? Meglio avere un figlio illetterato ma vivo che un figlio morto, crivellato dai colpi di una mitragliatrice». Così al-Shuraihi arrangia una scuola dentro una sua proprietà privata in costruzione e, con l’apporto didattico dei genitori degli stessi allievi, al-Nahda è diventata una scuola vera: dai duecento allievi iniziali è arrivata ad avere migliaia di studenti.

Inoltre, grazie a una generosa associazione tedesca, ha migliorato le sue infrastrutture, offrendo ai suoi studenti ambienti più accettabili. «Prima avevamo solo mattoni e tappeti e un paio di lavagne. Niente finestre, porte, bagni, acqua. Adesso abbiamo tutto questo e pure le uniformi per i ragazzi. Durante il Covid abbiamo acquistato anche le mascherine – continua –. Adesso stiamo cercando di puntare anche sugli studenti che lasciano la scuola per andare al lavoro come ambulanti. Alla loro età hanno diritto allo studio. E abbiamo puntato anche sulle famiglie dei neri yemeniti, i muhamasheen, che sono considerati i reietti della società locale».

Ma il problema principale per la scuola yemenita riguarda gli stipendi statali per gli insegnanti, bassissimi. «Lo stipendio di un insegnante non copre il prezzo del pane utile per un mese a famiglia – rivela il maestro –. Qui in Yemen lottiamo per la sopravvivenza e lo faremo finché la guerra non sarà finita».

Tra gli studenti dell’ultimo anno di corso c’è Mariam: oggi ha 12 anni. La prima volta l’avevamo incontrata quando era appena una bambina, nelle sue prime classi delle elementari, cinque anni fa. Allora aveva lanciato un appello per i bambini dello Yemen «che non vogliono la guerra», diceva.

Oggi è sempre più convinta di volere dare seguito alla sua vocazione futura d’insegnante e punta il dito contro le milizie e i loro abusi: «Solo delle persone non sane mentalmente potrebbero pensare di privare un bambino della scuola per mandarlo a combattere o possono costringere una bambina a sposarsi. Tutto questo deve finire».

Nella Sarajevo dello Yemen un uomo di buona volontà e una bambina proiettata verso il suo futuro di donna precedono le ipotetiche buone intenzioni dei potenti del mondo e insegnano la pace ai signori della guerra.

Avvenire

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