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Rohingya: il Bangladesh vuole trasferirli su un’isola sperduta e pericolosa…

Le violenze dell’esercito del Myanmar avevano costretto centinaia di migliaia di Rohingya a rifugiarsi in Bangladesh nel 2017. E quando ancora un rientro nelle loro terre d’origine sembra lontano, Dacca cerca di mandarne 100 mila su un’isola remota e pericolosa nel Golfo del Bengala.

di Fabio Polese

da Chiang Mai (Thailandia)

Non sono bastate le violenze dell’esercito del Myanmar e degli estremisti buddisti, che nell’agosto 2017 hanno costretto centinaia di migliaia di Rohingya a rifugiarsi in Bangladesh. E non bastano neanche le condizioni precarie in cui vivono nei fatiscenti campi profughi gestiti da Dacca. Il dramma di questa popolazione, che secondo le Nazioni Unite è una delle minoranze più perseguitate al mondo, non sembra avere fine.

La scorsa settimana il governo del Bangladesh ha annunciato che alla fine di novembre inizierà il trasferimento di 100 mila rifugiati Rohingya a Bhasan Char, una remota isola nel Golfo del Bengala. Per le autorità questa mossa sarebbe necessaria a causa del «disperato sovraffollamento» nei campi di Cox’s Bazar, una città al confine con la ex-Birmania, che ora ospita oltre 700 mila sfollati. Ma la scelta della nuova collocazione ha sollevato una serie di preoccupazioni per la salute e la sicurezza dei Rohingya che verranno trasferiti.

Famiglia rohingya. Foto: Unicef, UN0120414, Brown

Rohinghya in Bangladesh: l’isola in mezzo al nulla
Yanghee Lee, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani in Myanmar, che ha visitato l’isola nel gennaio 2019, ha espresso seri dubbi e preoccupazioni sul fatto che «l’isola sia davvero abitabile». Bhasan Char, infatti, è soggetta frequentemente ad inondazioni e cicloni. Lee ha anche avvertito che «un trasferimento mal pianificato e senza il consenso degli stessi rifugiati, creerebbe una nuova crisi per i Rohingya».

Il governo di Dacca ha spiegato che tutte le ricollocazioni a Bhasan Char saranno rigorosamente volontarie e che oltre 7 mila rifugiati hanno già accettato di trasferirsi. Non sappiamo, però, se questi Rohingya siano effettivamente consapevoli dell’isolamento e della pericolosità del contesto in cui andranno a vivere. L’isola, infatti, è a ore di navigazione dalla terraferma e le condizioni del mare non sono delle migliori. Durante il periodo dei monsoni i pochi residenti sono bloccati in mezzo alle acque per lunghi periodi.

Foto: Richard-dicky (Dutch Wikipedia)

Rohingya a rischio sussistenza
Sebbene le autorità abbiano migliorato le infrastrutture a Bhasan Char, per cercare di contrastare i rischi di inondazioni e costruito più di 1.400 edifici per ospitare gli sfollati, l’isola non ha un adeguato sistema di agricoltura e le attività commerciali sono quasi inesistenti. Inoltre vanno aggiunte le difficoltà per quanto riguarda l’istruzione e la sanità. Problematiche già presenti nei campi di Cox’s Bazar, che nei mesi scorsi avevano anche lanciato l’allarme del radicalismo islamico.

Nell’ultimo periodo, infatti, nelle strutture dove hanno trovato rifugio i Rohingya scappati dal Myanmar sono proliferate centinaia di scuole coraniche gestite da Hefazat-e-Islam, un gruppo estremista locale fondato nel 2010, che in passato ha organizzato numerose proteste di piazza. Questa organizzazione, finanziata da alcuni Paesi del Golfo, ha di fatto riempito il vuoto educativo imposto da Dacca, che ha vietato alla minoranza musulmana di frequentare gli istituti locali.

Chi sono i Rohingya e perché sono perseguitati
I Rohingya sono un popolo invisibile. Di fede musulmana, dall’ottavo secolo vivono nel Nord-Ovest del Myanmar, ma non vengono considerati ufficialmente un’etnia dal governo. Proprio per questo non hanno alcun diritto e la maggior parte di loro non ha cittadinanza nel paese guidato dal premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi. Senza il diritto di avere cure mediche e istruzione, non possono possedere nulla e non possono avere più di due figli.

Si è tornato a parlare della loro drammatica situazione nell’agosto di due anni fa, a causa delle persecuzioni dei militari birmani, che li hanno costretti ad un esodo nel vicino Bangladesh. Le poche testimonianze di prima mano arrivate in quei giorni del 2017 parlavano di brutalità inaudite e quotidiane: centinaia di morti, stupri, mine, sparizioni, villaggi dati alle fiamme e torture.

Rohingya a Cox’s Bazar. Foto: Unicef, UN0127199, Brown

Rohingya: il difficile ritorno in Myanmar
Negli ultimi due anni, il governo del Myanmar ha negato la sua colpevolezza per le atrocità commesse e ha vietato alle organizzazioni e agli osservatori internazionali, incluso il relatore speciale delle Nazioni Unite Lee, di accedere nello stato Rakhine, dove la maggior parte dei Rohingya viveva prima dello spargimento di sangue del 2017.

Proprio per queste ragioni, un ritorno in sicurezza in patria per la popolazione musulmana sembra, per ora, molto difficile. Lo stesso Lee, a settembre, ha dichiarato che il Paese della Suu Kyi «non ha fatto nulla per smantellare il sistema di violenza e persecuzione contro i Rohingya».

www.osservatoriodiritti.it

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