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Sono una bambina eritrea, mio padre mi ha venduta per sposa.

di Maria Luigia Alimena

500 lire, un costo troppo alto solo per avermi, così quel pover’uomo ha dovuto aggiungere un fucile ed un cavallo alla mia vendita.

I soldati italiani sono giunti qui per colonizzarci.

Il mio sposo ha poco più di 20 anni, crede che non è bene familiarizzare con noi eritrei, almeno finché non ci avranno civilizzato.
Non ha fatto alcuna piega quando ha scoperto la mia età e la mutilazione del mio corpo.
A 20 anni le sue esigenze e quelle dei suoi soldati sono il limite alla familiarizzazione con noi locali.
Servono donne giovani, vergini, si proteggono così dalla sifilide.

Lo raggiungo ogni 15/20 giorni al campo, gli porto la biancheria pulita e lui si prende la mia intimità mutilata.
La mia femminilità si confonde un pò nell’aspetto trasandato e povero del mio corpo, non sono di certo profumata con acqua di colonia francese. Dormo con le capre.
Le mie labbra cucite, sono state riaperte per consentirgli il suo piacere.

Al dolore fisico ho fatto l’abitudine, non sento niente quando mi possiede.
Al dolore dell’anima non presto ascolto, sono sempre altri a decidere per me.

Sono una bambina ma, sono eritrea, qui sono considerata nell’eta’ giusta per poter avere rapporti sessuali.

Durante il colonialismo fascista, sono nate ben due generazioni di meticci italo eritrei, nessuno ha avuto il riconoscimento della nazionalità e prima ancora, della genitorialità dei padri.
Gli italiani anche all’estero sono orgogliosi di portare avanti quel motto che più avanti diventerà infamia: prima gli italiani.
Così possono concedersi di commettere le nefandezze che nel loro Paese non possono fare. Pare che fuori dai confini,le bambine africane non sono più bambine, sono donne!

Sono rimasta con il mio sposo fino al suo ritorno in patria ed è stato così benevolo con me da cedermi ad altro veterano coloniale italiano.
Un comodato d’uso.
Dopo qualche anno fui concessa in moglie a mio marito.
Gli uomini hanno sempre continuato a decidere del mio destino di donna.
Il mio primo figlio,maschio,porta il nome del mio primo sposo italiano.

Dopo anni, ripensando alla mia vita la confondo con la vita di altre bambine, con la storia del mio Paese e delle due generazioni in cui la paternità fa a pugni con l’onore delle madri.

Non sono una eroina.
L’eroismo non appartiene mai alle vittime, né tanto meno a chi tira giù i simboli ed i monumenti.

L’eroismo appartiene a chi ha il coraggio di riconoscere gli errori di un’epoca, di un credo, di una pratica ancora diffusa oggi.

L’eroismo appartiene a quella politica che invece di difendere questo o quello, snocciola gli errori di un’epoca in cui la colpa dei singoli continua a distruggere ed a respingere popoli e diversità.

Il monumento all’uomo oltraggiato dal colore rosso mi ricorda lo squarcio sulla mia pelle.
Mi ricorda la cruenza di un gesto che non consente più di distinguere il violento dal giusto.

Domani nessuno ricorderà di noi spose bambine.
Noi continueremo ad esistere, ad essere violentate, ad avere l’interesse di quei turisti che “prima gli italiani” fuori e dentro i confini.
Ma la moralità entro quali confini deve muoversi?

Non basta tirare giù i simboli che restano eretti ed illustri nell’anima e nella conoscenza umana.
Abbattete la diffidenza verso gli stranieri che saccheggiate, usurpate, violentate, derubate di dignità ed avrete ottenuto un risultato migliore.

La grandezza e la pochezza umana si confondono nella vita di tutti, ma la realtà resta viva nonostante le mani dei violenti cambino.

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