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Sudan sull’orlo della guerra civile: eterni generali golpisti in gara tra imporre e depredare

E’ caos e violenza in tutto il Sudan, dove si scontrano esercito e milizie paramilitari. Numerose le vittime, anche tra i civili. Il Sudan è un Paese enorme, che va dalla Libia al Mar Rosso, dall’Egitto all’Africa centrale. Un paese di 46 milioni di abitanti, strategico per varie ragioni sia politiche sia militari. Tra le altre cose, è uno dei principali luoghi di partenza dei flussi migratori che dall’Africa subsahariana arrivano alla Libia per poi imbarcarsi nel Mediterraneo.
Un suo crollo o una nuova guerra civile potrebbe avere conseguenze disastrose. Ma quanto è pericoloso per tutta l’area quanto sta accadendo, quali conseguenze potrebbe avere per gli equilibri di un pezzo di mondo già afflitto da povertà e conflitti?

I due militari al centro della crisi in Sudan
Abdel Fattah al Burhan e Mohamed Hamdan Dagalo, presidente e vicepresidente della giunta che governa il paese, prima alleati e ora rivali. Da sabato mattina in Sudan sono in corso scontri molto violenti tra esercito regolare e un gruppo paramilitare ‘Rapid Support Forces’. Gli scontri si sono concentrati nella capitale Khartum, dove tutto è cominciato, con bombardamenti da parte dell’esercito di una base militare controllata dalle Rapid Support Forces. I combattimenti si sono estesi poi al palazzo presidenziale e all’aeroporto della città, di cui entrambe le fazioni in lotta hanno rivendicato il controllo. Secondo quanto riferito da un’associazione di medici locali, negli scontri sono stati uccisi almeno 97 civili e più di 300 persone sono state ferite.

Il primo lo si vorrebbe vicino a Washington, il secondo a Mosca, ma probabilmente più che dalle distinte preferenze sui partner internazionali, il tentato golpe nasce attorno alla spartizione del potere e di molto altro, comprese le miniere d’oro del Darfur

Due despoti in gara, difficile classifica sul peggiore
Al centro dei combattimenti ci sono i due personaggi più influenti della politica del Sudan degli ultimi anni: il presidente del paese, il generale Abdel Fattah al Burhan, che comanda l’esercito regolare, e il suo vicepresidente, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemedti, che invece è a capo delle ‘Rapid Support Forces’. Burhan e Dagalo si dividono il controllo del paese fin dall’aprile del 2019, ovvero dalla destituzione con un colpo di stato dell’ex presidente Omar al Bashir, che aveva governato il Sudan in modo autoritario per trent’anni. Burhan era allora già il comandante dell’esercito sudanese, che insieme ai movimenti di opposizione civile guidò il colpo di stato.

Burhan: un golpista scanna l’altro
Burhan ha 63 anni e nella sua lunga carriera dentro l’esercito sudanese si è distinto in particolare per essere stato uno dei pochi generali non islamisti durante il regime islamista di Bashir. Uno degli eventi più discussi della sua carriera militare fu la sua partecipazione come comandante alla guerra in Darfur (regione occidentale del Sudan), iniziata nel febbraio 2003 tra gruppi ribelli e governo centrale, accusato di opprimere le popolazioni locali non arabe. Durante il conflitto, alcune milizie assoldate dall’esercito sudanese furono accusate di enormi violenze, stupri e crimini di guerra contro le persone appartenenti alle comunità non arabe.

Degalo e le Milizie tribali arruolate
Tra queste milizie la più importante era Janjaweed, composta prevalentemente di pastori arabi, che Bashir assoldò per reprimere la ribellione delle popolazioni non arabe. Ne faceva parte anche Dagalo, che in poco tempo ne divenne uno dei comandanti. Della sua storia non si conoscono molti dettagli: si sa che ha circa 50 anni, che ha alle spalle solo un’educazione da scuola elementare e ha un passato da mandriano di cammelli. Alla guida di Janjaweed si rese responsabile tra le altre cose di un massacro di 126 civili nella città di Adwa, nel sud del Darfur, nel novembre del 2004.

Rapid Support Forces
Le Rapid Support Forces vennero costituite nel 2013 su volere del governo di Bashir per far confluire i miliziani di Janjaweed in un apparato militare meglio organizzato e addestrato per combattere in Darfur. Dagalo ne venne nominato comandante, ma il suo ruolo presto divenne molto più ampio del semplice comando militare. Nel 2017 utilizzò la milizia per prendere il controllo delle miniere d’oro del Darfur, cosa che gli permise di arricchirsi moltissimo (si stima che sia uno degli uomini più ricchi del paese).

Anche grazie alle risorse economiche accumulate con il controllo delle miniere d’oro del Darfur, le Rapid Support Forces oggi hanno in dotazione armi ed equipaggiamenti paragonabili se non superiori a quelle dell’esercito regolare.

Complici golpisti
Il rapporto tra Burhan e Dagalo cominciò proprio nella guerra del Darfur, quando i due iniziarono a collaborare per la prima volta, spartendosi il potere militare nel paese. Nel colpo di stato dell’aprile del 2019 Dagalo si schierò contro Bashir e al fianco dei golpisti. Brevissimo periodo di transizione democratica con al governo l’ex primo ministro Abdalla Hamdok, e nel 2021 nuovo colpo di stato e Burhan divenne il capo del ‘Consiglio Sovrano del Sudan’, l’organo a partecipazione civile e militare che avrebbe dovuto portare il paese a elezioni democratiche nel 2023. E Dagalo venne nominato suo vice.

Militari in gara con l’incubo di governo civile
Ma l’alleanza tra i due è cominciata a diventare sempre più precaria negli ultimi mesi, dopo che nel dicembre del 2022 il governo di Burhan aveva acconsentito a un accordo per restituire il potere a un’amministrazione civile. E da sabato i paramilitari sudanesi delle ‘Forze di supporto rapido’ cercano di prendere il potere e di scalzare l’esercito in una prova di forza fatta di incursioni, sparatorie, raid aerei, mobilitazioni di blindati e annunci contrastanti.

La situazione intrappola almeno circa 150 italiani, mentre l’ambasciata ha avvisato i nostri concittadini di restare in casa.

REMOCONTRO

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