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Castel Volturno. 11 ore nei campi, frustate: i racconti-choc degli schiavi dei raccolti

di Antonio Maria Mira

Dieci i bracciati sfruttati; dalla loro denuncia le indagini per caporalato. Ecco i loro racconti

«Il modo in cui ci trattano è molto brutto. Lavoriamo per 11 ore al giorno e ci appellano in modi molto brutti quando ci chiamano. Ci forzano a fare sempre di più. C’è sempre una persona che ci controlla e, se ci lamentiamo, ci fanno stare a casa il giorno dopo. Mi sento come quando stavo in Libia e mi sento come se dietro di me ci fosse una persona con la pistola».

A parlare è un gambiano di 28 anni, uno dei dieci braccianti immigrati sfruttati sui campi casertani scoperti dall’importante inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere.

(qui l’articolo in cui se ne parla http://https://www.avvenire.it/attualita/pagine/caporalato-violenze-sui-braccianti )

Sfruttati da quattro imprenditori agricoli campani ora indagati. I motivi sono sintetizzati in poche e drammatiche parole contenute nell’ordinanza. «Li costringevano a condizioni lavorative nei campi, per più di dieci ore, senza pausa e nonostante il caldo asfissiante, in totale assenza di misure di sicurezza, con esposizione a fonti di pericolo senza dispositivi di tutela, commettendo violazioni in materia di sicurezza sui luoghi di lavoro tali da esporre i lavoratori a pericolo per la loro sicurezza e incolumità personale».

Rischi per la sicurezza che cominciano già all’alba quando uno degli imprenditori viene a prendere i braccianti che attendono alla rotonda di Pescopagano, frazione di Castel Volturno, il luogo dell’«arruolamento».

A raccontarlo ai carabinieri è un ghanese di 36 anni. «Solitamente passa alle 5,30 a bordo di un camioncino Iveco di colore rosso e telo blu. Il camioncino non è munito di sedili passeggeri nella parte posteriore poiché è per trasporto cose e non di persone. Noi viaggiamo sul cassone seduti per terra oppure sulle cassette per la frutta».

Con pericoli gravissimi in caso di incidente, come purtroppo accaduto non poche volte nelle campagne dello sfruttamento, non solo nel Casertano. Una condizione di insicurezza che continua sui campi, come racconta un altro giovane gambiano. «Se qualcuno di noi si lamenta della faticosità e delle condizioni lavorative, lui di tutta risposta ci mette a zappare o, comunque, ad effettuare lavori ancora più gravosi. In più occasioni ha brandito degli oggetti per minacciare gli operai». E non solo per minacciare.

Come accade a un senegalese di 26 anni. È lui stesso a raccontarlo agli investigatori. «Al termine della giornata di lavoro mentre aspettavamo l’arrivo del trattore per caricare il prodotto raccolto, decisi di fumare una sigaretta e mi sedetti per terra per poter riposare. Mentre ero seduto arrivò Domenico (uno degli imprenditori n.d.r.) che in modo aggressivo iniziò a sgridarmi, ordinando a voce alta di alzarmi. Io non feci nulla e lui me lo ripetette per la seconda volta. Io gli risposi testualmente: “Non mi rompere le palle”, anche perché avevamo oramai finito la giornata di lavoro. Iniziò a gridare ancora di più e, dando dei pugni a terra, mi diceva che quella era casa sua e che comandava lui e che quando parlava lui io dovevo stare zitto e non dovevo permettermi di rispondere. Io non dissi più nulla».

Ma più tardi scatta la punizione, quando Domenico riferisce l’accaduto al fratello Vincenzo. «Andò su tutte le furie, corse verso il capannone dove prelevò una cinghia in gomma, una di quelle utilizzate per la trasmissione di alcuni macchinari. Allo stesso tempo Domenico prelevò un bastone di legno dallo stesso magazzino. Immediatamente i due corsero nella mia direzione, brandendo gli oggetti che avevano preso, come per colpirmi». Intervengono gli altri braccianti ma ugualmente il ragazzo viene colpito. «Mi si gonfiò il braccio per alcuni giorni. Mi medicai da solo e decisi di non fare ricorso a cure mediche».

E a proposito di salute, in un’intercettazione telefonica tra due imprenditori, emerge che i braccianti stranieri erano costretti di pagare di tasca propria la visita medica prima di iniziare a lavorare, mentre per gli italiani pagavano, come prevede la legge, i datori di lavoro. Il motivo lo scrivono i magistrati. «Pur di lavorare e soprattutto per entrare in possesso di un contratto di lavoro che gli permettesse di avere un permesso di soggiorno regolare, costoro erano disposti ad accettare qualsiasi “compromesso”». Non tutti.

Così quando il 19 maggio 2021 le forze dell’ordine effettuano un controllo nelle aziende agricole, «Vincenzo disse che a chi scappava, non facendosi generalizzare dagli ispettori, avrebbe dato 500 euro di premio». Ma solo quattro lo fanno. Mentre altri rispondono agli ispettori. Ma ne pagano le conseguenze. «Nei giorni successivi al controllo Vincenzo mi ha detto testualmente: «Siete neri perché mi avete messo nei casini con l’ispettorato». Io gli risposi: «Tu sei italiano e lo devi sapere che ci devi fare un contratto per lavorare. A questo punto intervenne Domenico che mi disse di prendere le mie cose e di andare via».

Ma alcuni di loro non si arrendono. Così accettano di parlare con gli investigatori. Lo spiega bene il giovane gambiano. «Dopo che avete effettuato il controllo mi sono reso conto di avere dei diritti per cui ho intenzione di mettervi a conoscenza di alcuni gravi fatti che avvengono presso l’azienda».

Informazioni preziose per individuare le gravi responsabilità degli imprenditori. Ora il coraggio di questi lavoratori dovrebbe essere riconosciuto, come prevede la legge, con la concessione del permesso di soggiorno che non li farà più essere fantasmi e permetterà di avere finalmente un regolare contratto di lavoro.

Avvenire

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