Browse By

La guerra più forte del coronavirus, in Medio Oriente i conflitti non si fermano

di Giordano Stabile

DALL’INVIATO A BEIRUT. L’influenza detta «spagnola» non fermò la Prima Guerra Mondiale nel 1918, il coronavirus non ferma i conflitti in Medio Oriente nel 2020. Come cent’anni fa l’epidemia ha scompaginato i piani delle potenze coinvolte, e costituisce un incubo logistico per i rischio che vengano contagiati i combattenti. Ma dopo una prima fase di assestamento gli schieramenti, chi più e chi meno, si sono adattati e le ostilità sono riprese. Il caso più clamoroso è la Libia. L’Onu ha chiesto più volte, con lo stesso segretario generale Antonio Guterres, una tregua umanitaria, anche perché le strutture ospedaliere sono sotto stress e il Covid-19 potrebbe diventare incontrollabile. Ma dopo un breve cessate-il-fuoco, la battaglia di Tripoli è ripresa, con ancora più spregio per i civili.

Tripoli assediata e assetata
Prima le milizie fedeli al governo guidato da Fayez al-Serraj hanno lanciato un attacco a sorpresa a Ovest della capitale, per conquistare la base strategica di Wittia. Haftar ha risposto con una controffensiva su tutti i fronti, sostenuta da raid aerei sempre più indiscriminati, fino a colpire uno degli ospedali più importanti. Hanno risposto i droni turchi con raid sulle postazioni dei combattenti di Haftar. Due sono stati abbattuti fra ieri e oggi. Alla fine una milizia alleata del maresciallo ha interrotto le forniture del più importante acquedotto, il Grande fiume artificiale costruito da Muammar Gheddafi, e adesso due milioni di persone, compresi 600 mila minori, sono senz’acqua. L’appello della missione Onu del Paese a riaprire le condutture non ha finora sortito effetti. A Tripoli, con 22 casi contagi registrati, e forse molti di più reali, non c’è neppure l’acqua per lavarsi le mani.

Guerriglia nel Nord della Siria
La tregua raggiunta a Idlib dopo l’accordo fra Recep Tayyip Erdogan e Vladimir Putin è violata quasi tutti i giorni. I ribelli jihadisti non ci stanno e cercano di impedire in tutti i modi le pattuglie congiunte russo-turche lungo l’autostrada Lattakia-Aleppo, che dovrebbero garantire il rispetto del cessate-il-fuoco. I militanti hanno fatto saltare anche alcuni ponti e sparato raffiche di avvertimento persino sui mezzi turchi, in teoria loro garanti e alleati. L’esercito governativo siriano ha reagito con raid limitati, per non irritare i russi. Oggi c’è stato un vertice di emergenza fra i viceministri degli Esteri russo e turco, Sergei Verchinin e Sedat Onal, per discutere della situazione sempre più fuori controllo. Ma il conflitto a bassa intensità continua anche nel Nord-Est. I ribelli filo-turchi attaccano i guerriglieri curdi delle Ypg e l’esercito siriano alleato, mentre gruppi misteriosi, forse legati a Damasco, tendono agguati contro i soldati americani, che restano in alcune basi vicino al confine con l’Iraq. Nel più grave è stato ucciso un militare statunitense.

Instabilità irachena

Nel vicino Iraq continua il braccio di ferro fra Stati Uniti e Iran, uno scontro inasprito dall’uccisione del comandante dei Pasdaran Qassem Soleimani lo scorso 3 gennaio. Dopo una serie di attacchi con razzi katiuscia contro le basi americane, le milizie sciite hanno adottato un profilo basso, per favorire un compromesso sul nuovo premier. Sarà, salvo colpi di scena dell’ultimo momento, l’attuale capo dei Servizi interni, Mustafa al-Kathimi, un uomo di compresso fra Washinton e Teheran. Un terzo dei 7500 militari della Nato ha già lasciato il Paese, per timori di contagi ma anche per non essere esposto ad attacchi, ma l’Iran ha favorito comunque la nascita di un nuovo gruppo della “Resistenza” che lancia ultimatum, rivendica lanci di razzi e ha minacciato persino agli ambasciatori di Washington e Londra. In tutto ciò il coprifuoco imposto dal governo per frenare l’epidemia ha stroncato quel che rimaneva del movimento di protesta contro il sistema settario dei partiti e contro la corruzione.

Le periferie: Afghanistan e Yemen
L’anno si era aperto con lo storico accordo fra Stati Uniti e Taleban per arrivare alla pace dopo due decenni di guerra civile. Adesso però gli studenti barbuti puntano piedi nei confronti del presidente Ashraf Ghani. Lo scambio di prigionieri fra le parti, una delle clausole dell’accordo, è in stallo. Dei cinquemila jihadisti che avrebbero dovuto essere rilasciati soltanto 50 sono finora usciti di prigione e i Taleban hanno di nuovo frenato sulla consegna di 100 soldati loro prigionieri. Tre giorni fa un gruppo misterioso ha lanciato razzi contro la base Usa di Bagram. Il coronavirus ha frenato in un primo momento anche il ritiro previsto di 4500 soldati americani sui 13 mila attualmente nel Paese. Nei giorni scorsi è ripreso e “andrà avanti comunque”, anche se gli spostamenti di truppe statunitensi sono stati limitati in questo periodo. Nello Yemen, devastato da cinque anni di guerra civile fra i ribelli sciiti Houthi e le forze governative sostenute da Riad e Abu Dhabi, la Coalizione a guida saudita ha annunciato un cessate-il-fuoco per l’emergenza sanitaria. Gli Houthi hanno rifiutato e continuano la loro offensiva nelle province di Jawf e Marib.

Le minacce dell’Isis
In tutto ciò l’Isis, nell’ultimo numero del suo settimanale digitale Al-Naba, esorta i militanti ad “attaccare, indebolire gli infedeli” e ad approfittare delle crisi sanitaria senza “mostrare alcun segno di pietà” sui nemici, anzi a “raddoppiare la pressione”. I jihadisti hanno già dichiarato il nuovo coronavirus un “soldato di Allah” e voglio approfittare del momento di distrazione delle potenze europee e americana, impegnate nella lotta contro l’epidemia sul fronte interno. Ma anche gli attori regionali cercano di cogliere le opportunità. I più determinati sono in questa fase l’Iran, che nonostante la situazione disastrosa in casa, con 70 mila contagiate e oltre 4 mila morti per il Covid-19, è impegnato ad allargare la sua influenza in Iraq, in concomitanza del ritiro di parte delle truppe Nato. E poi gli Emirati, che si sono riavvicinati alla Siria di Bahsar al-Assad in funzione anti Fratelli musulmani e cercano di chiudere la partita contro la Turchia in Libia.

La Stampa

Please follow and like us: