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Lampedusa, 3 ottobre 2013. Quando il fuoco si prese il mare…

Il ricordo delle vittime a Lampedusa

Morirono 366 migranti, secondo i calcoli altri cinquanta rimasero tra le onde, mai più ritrovati. Il dolore di Pietro Bartolo, il medico dell’isola. Che ricorda quel giorno e si commuove per la rabbia.

di Daniela Amenta

Quando ne parla, Pietro Bartolo, ancora si commuove. E’ lui il medico dell’isola, quello che salva le vite, che fa nascere i bambini, quello che cura la sua gente e la gente che arriva da lontano. Quello a cui toccano le autopsie. “U duttori” per Lampedusa e non solo. Era il 3 ottobre del 2013 e quelli che ricordano parlano di un’alba calma, azzurra, con l’Isola dei conigli che sembrava il paradiso tanto l’acqua era limpida, di cristallo.

Alle 7 furono i pescatori a dare l’allarme. A mezzo miglio da terra c’erano uomini, donne e bambini tra le onde, c’erano chiazze grandi, oleose a deturpare la baia. Iniziarono a caricare chi potevano sui barchini, pure sui gommoni. Poi scesero i sub. Qualcuno là sotto, nei fondali di sabbia e stelle marine, lo trovarono abbracciato. A picco, in fondo al mare di Lampedusa, si era inabissato un peschereccio lungo circa 66 piedi salpato dal porto libico di Misurata il primo ottobre 2013, con a bordo migranti eritrei, stretti l’uno all’altro, schiacciati come sardine. La traversata era quasi finita, quando tra quel groviglio di vite umane cadde una torcia, un incidente. Cadde dalle mani dell’assistente del capitano in una pozza di gasolio. E in pochi secondi divampò l’incendio, si scatenò l’orrore, “fuocoammare” per citare il capolavoro di Gianfranco Rosi. Finirono di recuperare i corpi, o quello che ne era rimasto, il 12 ottobre, 9 giorni dopo. Morirono 366 migranti, solo 194 si salvarono, 50 dispersi mai ritrovati.

La più grande tragedia del Mare Nostrum. Il massacro, il funerale del Mediterraneo e delle nostre coscienze
Il dottor Bartolo prende fiato, quando lo racconta: “Il primo corpo era quello di un bambino”. Per la strage di Lampedusa il capitano dell’imbarcazione, il tunisino di 35 anni Khaled Ben-salam, è stato accusato di omicidio colposo plurimo.
“Ieri erano i turchi, mamma li turchi, come se fossero invasori – racconta la dottoressa Malatino, da 16 anni psichiatra nel centro di salute mentale dell’isola, la prima che ha provato a mettere in piedi una task force per l’accoglienza anche psicologica dei migranti -. Poi sono diventati clandestini. Dopo il 2013 molte di queste creature in fuga si sono trasformate in ‘sciatu meu’ per la gente di Lampedusa. Vuol dire fiato mio, mio respiro. Lo sa che qui in tanti chiamano così i loro figli?”.
Pietro Bartolo, il dottore, non si dà pace. “Qui sono arrivati fino al 2013 almeno in 200mila. Per noi un numero impossibile, ma per l’Europa non sarebbe stata che una cifra irrisoria, una percentuale insignificante. Bastava accogliere, spartirsi le responsabilità. Invece venivano i politici, facevano le passerelle e poi tutto restava sulla nostra coscienza, sulle nostre spalle.

A un certo punto, era il marzo del 2011 c’erano più immigrati che lampedusani, il Centro d’accoglienza era stracolmo. E’ stata una escalation, nel tempo. La prima volta che ho visto tre naufraghi era il 1991. Arrivavano dalla Tunisia, erano così spaventati che scapparono a nascondersi in campagna”. Si ferma, ricorda il dottor Pietro. Continua: “Settecento i morti che abbiamo contato a Lampedusa. E poi, poi c’è stato l’inferno”.
E l’inferno è datato, appunto, tre ottobre 2013, 366 morti. L’ecatombe, il Mediterraneo trasformato in un cimitero. Parla Pietro Bartolo, a volte s’arrabbia e alza un po’ la voce, perché dati certi, nella conta delle vittime, non ce ne sono: “Quindicimila, ventimila? Non sappiamo. Da poco sono venute qui sull’isola le donne tunisine, una delegazione di madri che hanno smarrito i figli, non ne hanno più notizie. Settantacinque figli spariti, inghiottiti nel nulla. Pensi che dolore”.

Qui a Lampedusa oggi sono arrivati ragazzi e ragazze da tutta Italia, ma anche da Austria, Francia, Malta e Spagna. Sono 200 studenti che incontreranno le autorità – dal presidente Grasso alla ministra Fedeli – e i migranti, ma soprattutto i sopravvissuti alla strage. Un ragazzo ha chiesto a un eritreo scampato a quel giorno di ottobre cosa ricordasse. L’uomo ha scosso il capo, sopraffatto dal dolore: “Ricordo le urla – ha detto. E la mia impotenza. E la mia voglia di farcela, contro tutto e tutti”.
Adesso, quattro anni dopo, ha trovato un lavoro come badante in Germania. Fra poco lo metteranno in regola, avrà uno stipendio, e i diritti, e una casa, e forse una famiglia dopo tanta sofferenza. E quasi ha chiesto scusa. Per esserci ancora. Per essere vivo.

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