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Lesbo è il sacchetto dell’umido dell’Europa, c’è il Coronavirus ma non il panico.

di Giulio Cavalli

Bisognerebbe inventarsi nuove parole per raccontare cosa accade su quella maledetta collina intorno al campo di Moria a Lesbo. Bisognerebbe sanguinare parole nuove che non esistono ancora per scrivere un pezzo che non rimanga impantanato solo nelle pagine di un giornale ma che si imprima a fuoco negli occhi di chi legge. In un campo profughi pensato per 3mila persone oltre 20mila disperati frugano tra le macerie della loro vita per provare a sopravviversi, schiacciati da una fuga che non li ha portati, no, nel luogo che speravano, dalla Turchia, che per fare la voce grossa con l’Europa ha aperto un rubinetto da cui escono uomini, e da un’Europa che finge di non vedere, finge di non sentire e contabilizza le vite umane come un cinico scartoffiomane seduto comodo nel suo ufficio.

A Lesbo si arriva sfiniti ma c’è da sfinirsi ancora per i raid punitivi dei gruppi di ultradestra che trattano i migranti come carne da bastone per aizzare la propaganda, a Lesbo il 40% di quelli che vengono burocraticamente denominati come migranti sono ragazzini, minori, molti senza nemmeno un padre e una madre che scoprono il mondo e scoprono la cosiddetta civiltà occidentale leccando i rifiuti, mentre il governo greco ha sospeso tutte le procedure di richiesta d’asilo (contravvenendo una manciata di convenzioni internazionali che di questi tempi risuonano come lettera morta) e studia altri metodi per scoraggiare i nuovi arrivi, come se non bastassero le botte. Interessa poco, vero, ciò che accade a Lesbo perché i disperati e gli ultimi sono scesi nella classifica degli argomenti agitati dalla propaganda eppure l’ultima notizia è un pugnale: anche a Lesbo ora c’è un caso di Coronavirus, una persona di nazionalità greca ora ricoverata.

Ora, in questa storia che richiederebbe un vocabolario nuovo, immaginate cosa accadrebbe (o, cosa accadrà) quando quell’umanità assembrata e infettata dalla disgrazia di essere nata nella parte sbagliata del mondo verrà raggiunta dall’epidemia. Immaginate la virulenza, immaginate la facilità di contagio e soprattutto immaginate le cure. Quanto saremmo capaci di prenderci cura, tra l’altro della malattia che è anche la psicosi del momento, di gente di cui già non abbiamo cura? Cosa diventerebbe il campo di Moria con il Coronavirus che si appiccica ai polmoni di gente che è già devastata?

Forse per riuscire a immaginare cosa accade lì a Lesbo, nel sacchetto dell’umido dell’Europa che non si volta a guardare, si potrebbe raccontare che la notizia del Coronavirus non ha nemmeno acceso il panico tra i migranti. Come si può disperare ancora uno che ha già perso la speranza da un pezzo? «Non ho notizia di situazioni di panico – dice Maurizio Debanne, uno dei portavoce di Medici Senza Frontiere -. Sono persone che hanno perso la speranza su tutto, anche se hanno una capacità di resilienza molto forte». O forse quella che chiamano “resilienza” è una disperazione cronica che non si smuove nemmeno per il virus. Il Coronavirus in fondo sta funzionando anche da termometro sulla nostra capacità di prendersi cura degli ultimi del mondo (siano migranti, carcerati o altri disperati): a Roma l’associazione Baobab chiede alla sindaca Raggi cosa abbia in programma per occuparsi della protezione dei senza fissa dimora che sono in città per «garantire la disponibilità dei servizi essenziali di sopravvivenza per le persone in condizioni di impossibilità di provvedere a se stesse». Come potrebbe finire mette i brividi solo a pensarci.

www.ilriformista.it

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