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«Mobbing, violenze e infine la malattia: in quel supermercato i miei cinque anni dell’orrore»…

Una lavoratrice della Lidl ha portato sul banco degli imputati il suo ex caporeparto accusato di averle provocato con sadici e sistematici atteggiamenti persecutori il disturbo da panico. «Come finirà? Non lo so, ma la mia è una lotta simbolica in nome dei tanti che subiscono sopraffazioni ma non trovano il coraggio di ribellarsi»

di Maurizio di Fazio

«Era il luglio del 2005. Inizialmente le cose sembravano andare bene. Ma nel 2006 arrivò il nuovo caporeparto, e con lui la mia discesa negli inferi». Mansioni massacranti svolte di norma dagli uomini, l’obbligo di 39 ore di straordinario in una settimana, senza turni di riposo, sette giorni su sette. Poi lo stalking telefonico e una spirale senza fine di offese. Una storia di sopraffazioni e violenze psicologiche e fisiche, di mobbing, omofobia, e di mancato rispetto di ogni minimo standard di sicurezza e umanità. Questa è la denuncia presentata contro la Lidl da Sara Silvestrini, una quarantenne di Lugo (Emilia-Romagna) che ha lavorato in un supermercato italiano del colosso tedesco degli hard discount dal 2005 al 2015, fino al suo licenziamento «per giusta causa», per di più arrivato «a pochi giorni dalla festa per il decennale del mio magazzino, che coincideva con i miei dieci anni di servizio. Un’umiliazione doppia». Si è aperto al tribunale di Ravenna un processo che vede sul banco degli imputati soprattutto il suo ex caporeparto: per lui, l’accusa è di aver provocato alla donna (con ingegnosi, sadici e sistematici atteggiamenti persecutori) una malattia professionale, il disturbo da panico. È stato il reparto di Medicina del lavoro dell’azienda ospedaliera universitaria di Verona a diagnosticarle un «disturbo post traumatico da stress cronico reattivo a una condizione lavorativa che può essere inquadrata nelle molestie morali protratte».

Rischiano pene meno lunghe altre tre figure: il procuratore speciale, il coordinatore regionale e il coordinatore regionale logistica. Per loro, il reato contestato è di non aver impedito il modus operandi del caporeparto né dato tantomeno spazio a una valutazione del rischio dello stress lavoro-correlato, come da obblighi di legge.

La donna, che è riuscita a costituirsi parte civile, possiede diverse registrazioni ambientali e telefoniche che suffragano il suo racconto-shock. Anche la sua compagna Federica, che si è sentita danneggiata dai problemi di salute della convivente, è parte civile al processo, ed è una delle primissime volte che capita una cosa del genere nella penisola. Da quella maledetta estate del 2015 la strada è stata per loro, tutta in salita. «Abbiamo cercato di avviare un’attività, una paninoteca itinerante, ma è durata poco, per gli strascichi psicologici del mio incubo in Lidl». Quello che Sara Silvestrini affida a L’Espresso è un racconto dell’orrore. Su cui Lidl Italia non vuole esprimersi: «Siamo fiduciosi nell’operato della magistratura e convinti che, all’esito del dibattimento, sarà fatta luce sulle vicende che coinvolgono le persone interessate. Il rispetto nei confronti del tribunale, nonché l’esigenza di tutelare la riservatezza dei nostri collaboratori ed ex collaboratori ci impone dunque di mantenere il massimo riserbo sulla vicenda giudiziaria».

L’assunzione e le prime angherie.
«Vengo assunta nel luglio del 2005. Inizialmente, le cose vanno bene. Ma nel 2006 arriva il nuovo caporeparto e, con lui, la mia discesa negli abissi. Il suo primo atto è di assegnarmi la gestione esclusiva del cosiddetto reparto Sidac, che non era certo prevista dal mio contratto. Le mansioni di questo lavoro sono svolte prevalentemente dagli uomini, e non certo in solitaria: devo preparare gli ordini per le filiali e provvedere allo smistamento del materiale quando rientra in magazzino. Una faticaccia. Mi occupo di tutto questo fino al 2007, quando inizio a non sentirmi più in forze. Il caporeparto mi vieta, inoltre, l’utilizzo del computer e del telefono. Mi tocca così scriverla in carta semplice la gran quantità di ordini preparati e smistati: saranno altri a trascriverli su un foglio Excel. Il mio aguzzino mi costringe poi a 39 ore di straordinario in una settimana, e comincia a farmi lavorare la domenica, senza turni di riposo, sette giorni su sette».

Lo stalking telefonico.
«Sono tenuta a contattarlo ogni mattina, a inizio turno, per essere puntualmente stigmatizzata sulle presunte mancanze del giorno prima. Ricevo insulti sempre sproporzionati rispetto ai miei errori, quando ci sono. Mi apostrofa con espressioni come «non serve bagnarti le mutande», «sei un’esperta di banane, non di logistica», «culo sulla sedia», «essere non pensante». Mi telefona di continuo, anche quando non lavoro e sono a casa, per qualsiasi inezia gli passi per la testa. Mi invita a essere “gentile” coi camionisti pur conoscendo la mia omosessalità».

Aumentano le offese
«Un pomeriggio mi chiama all’improvviso e comincia a inveire in modo terribile contro di me, affermando tra l’altro che «mi stavo scavando la fossa» e che ero una «povera incapace, inutile». A quel punto ho una crisi nervosa, e scoppio a piangere davanti a tutti. Non riesco più a parlare, tremo e balbetto solamente, mi sento stordita. Quando vengo promossa (con uno scatto virtuale) al terzo livello, il mio capo sostiene che la mia nuova qualifica è «una diarrea sul bancone dell’uscita merci». Un giorno mi fa: «Sei come un malato di tumore: tutti, intorno a lui, sanno che sta male, tranne lui stesso». E aggiunge: «è come se tu avessi il cartello “stronza” attaccato alla schiena». Mi confida: «In passato avrei voluto strozzarti».
Ora la voce di Sara Silvestrini si spezza. Troppo oscura, ribollente, tossica la materia dei ricordi manipolati. Non molto difforme dai racconti che rimbalzano nel confessionale pubblico ma segretissimo del gruppo Facebook «Sei lideliano se…», che conta quasi 8 mila iscritti, tutti con la livrea giallo, rosso e blu, i colori sociali del brand, nella vita reale. Strano però che ad amministrare la pagina sia un ex delegato sindacale interno, da qualche tempo passato dall’altra parte della barricata visto che è stato precettato dalla Lidl. Le maestranze in modalità online lamentano anche che «ci sono giornate in cui il lavoro si accumula in modo inesorabile (lo scarico del camion, il “controllo freschi”, gli sconti da applicare alla carne in scadenza, gli allestimenti, le pulizie eccetera), e allora monterebbe la politica del cosiddetto “taglia-taglia” ore». In soldoni, per tenere il ritmo di standard di produttività sempre più elevati, fissati di giorno in giorno, i lavoratori sarebbero costretti a proseguire il turno anche dopo aver timbrato il cartellino di uscita. Lavorando, di fatto, gratis. Sara annuisce. Si fa forza, e continua a ripescare i suoi frammenti di un discorso doloroso.

Lo schiavismo
«Arriva un periodo di nera angoscia, uno dei più brutti della mia vita. Mi mette a pulire i muletti, un’attività che lo stesso personale competente (gli addetti alle pulizie) effettua saltuariamente, per lo più una volta al mese. E lui trova il coraggio di accusarmi di aver consumato trope bobine di carta, e troppo prodotto. Avviene un episodio strano: mi sbatte a tutta velocità col suo muletto, a magazzino vuoto, mentre sto ferma. Sfodera uno sguardo minaccioso, non si scusa nemmeno».

Le lettere di richiamo natalizie
«Vengo rimessa a fare il turno di notte. Nel dicembre del 2013 mi giungono due lettere di richiamo, una dietro l’altra, che riguardano un errore effettivamente commesso da me, ma non per negligenza. In quel periodo sono stanchissima, i turni notturni sono diventati molto pesanti, verso una certa ora mi si appannano la vista e la schiena. La prima lettera mi è recapitata a mano: passano apposta in magazzino alle dieci di sera per comunicarmi la lieta novella, insieme alla scatola col regalo di Natale. Sono sempre più triste, mi sento perseguitata, rinuncio a difendermi».

La diagnosi e la speranza
«Mi rivolgo allora al centro di salute mentale della mia città. Il mio avvocato invia alla Lidl una lettera stragiudiziale in cui l’invita a cessare il fuoco delle vessazioni e delle umiliazioni nei miei confronti. Comincio ad assumere antidepressivi. Torno al lavoro, ma la situazione degenera. Il caporeparto mi dà delle spinte quando sono seduta nella mia postazione, stringendomi contro il pannello del box “uscita merci”. Un giorno me lo ritrovo di fronte tutto rosso in viso, talmente sovreccitato che sputa mentre parla. Mi strattona per la camicia e strilla: “Bisogna alzarsi dalla sedia e prendere la gente per il collo se non otteniamo nulla telefonando”. La depressione aumenta. La mia compagna si preoccupa, cerca di non lasciarmi più sola, teme che possa suicidarmi. Spero che adesso questo processo ristabilisca la giustizia. Ogni notte ho incubi tremendi, duraturi e realistici, e riguardano tutti la Lidl. Dormo poco, mi sveglio di soprassalto. Dopo tutto quello che ho dato a quest’azienda. L’umanità non si svende».

Lei si chiama Federica Chiarentini, e confessa a L’Espresso: «Sara ha subito un mobbing molto pesante. Con un atteggiamento persecutorio e aggressivo, lettere di richiamo del tutto pretestuose, fino all’ingiusto licenziamento finale. Trovo assurdo che un gigante come Lidl permetta che venga tutelato chi vessa, è violento e crea disturbi in azienda, anziché una lavoratrice come lei sempre operosa e in prima linea. Assurdo che venga protetto e premiato il carnefice, e non la vittima delle sue molestie».

Nessuno l’ha più cercata Sara Silvestrini. Nessuna lettera dal quartier generale in provincia di Verona, nessun invito a cena dagli ex colleghi.

«Come finirà? Non lo so, ma la mia è una lotta simbolica e universale, nel nome dei tanti che subiscono sopraffazioni ma non trovano il coraggio di ribellarsi a un Moloch di queste dimensioni»…espresso.repubblica.it

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