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Qui Myanmar. La resistenza dilaga ma il mondo sta a guardare

Nel terzo anniversario del colpo di Stato nella ex Birmania, il Paese continua a lottare per la democrazia. Le voci delle attiviste e sindacaliste Ti Chia e Khiang Zar Aung

di FRANCESCA LANCINI

Il primo febbraio 2021 l’esercito rovescia il governo neoeletto del Myanmar, ma si trova davanti un Paese profondamente cambiato. Un decennio abbondante di transizione democratica, avviata nel 2010, ha cresciuto una nuova generazione consapevole dei propri diritti e degli abusi perpetrati dalle giunte militari che si sono succedute a partire dal 1962. Con sorpresa per il generale golpista Min Aung Hlaing e i suoi fedelissimi, l’intera popolazione inizia subito a protestare. Non solo la maggioranza buddista bamar, ma anche le minoranze etnico-religiose, che nella repubblica del Sud-Est Asiatico sono almeno 135, non vogliono più la dittatura.

Per la prima volta dal 1948, quando l’allora Birmania ottiene l’indipendenza dalla Gran Bretagna, le proteste accomunano le città e le zone rurali più remote. Nell’ex capitale Yangon, rimasta il più importante centro economico-finanziario, marciano per le strade milioni di persone, in gran parte donne finora nelle retrovie di una società davvero patriarcale. Tra loro c’è la leader sindacale degli agricoltori Ti Chia Pan, cresciuta in una famiglia di contadini di etnia Naga nella regione di Sagaing, al confine con l’India.

«Tutto il Paese era in strada. Preparavamo i manifesti e le candele. Poi hanno cominciato a spararci, portarci via, imprigionarci. Non so come mi sono salvata, ma resto sulla lista nera. Diciotto mesi fa sono dovuta fuggire da Yangon», racconta Ti Chia da una casupola di legno dove è rifugiata, nella giungla al confine con la Thailandia. Questa giovane donna di 39 anni è la personificazione di come una straordinaria resistenza non violenta abbia dovuto per forza allearsi con una resistenza armata. Ti Chia non combatte. Dietro di lei, però, l’esercito birmano bombarda e le milizie Karen si difendono proteggendo le comunità locali gli sfollati e gli esuli come Ti Chia.

Per tutto il mese di febbraio del 2021 i lavoratori di ogni categoria, medici, infermieri, insegnanti, funzionari pubblici, addetti ai trasporti, artisti, attivisti Lgbqt+ non vanno a lavorare, unendosi nel Movimento di Disobbedienza Civile. Dappertutto i giovani marciano alzando le tre dita, saluto preso dal film Hunger Games, già utilizzato come simbolo di ribellione dai coetanei di Hong Kong. I sindacati — proibiti fino al 2011 — organizzano scioperi di massa. Il Paese si ferma. Il capo dell’esercito Min Aung Hlaing, comprende che per riottenere il potere non è bastato arrestare Aung San Suu Kyi, il presidente U Win Myint e moltissimi parlamentari che hanno ottenuto ben l’83% dei seggi nel voto legittimo del novembre 2020. Quindi ordina una repressione violentissima che dura tuttora.

La prima vittima è una manifestante di 20 anni, Mya Thwe Khine, colpita alla testa da un proiettile il 9 febbraio 2021. Da allora, ogni giorno, in questa guerra impari cadono altri civili, compresi bambini. Ma, dopo l’imposizione dello stato d’emergenza e della legge marziale, è a marzo che la resistenza pacifica si rende conto di non essere sufficiente. Il 14, duecento soldati uccidono 65 persone che avevano eretto barricate in un sobborgo industriale e operaio di Yangon. Verrà ricordato come il massacro di Hlaing Tharyar, il primo di una serie. Ad aprile si forma in clandestinità il Governo di Unità Nazionale che chiede alla comunità internazionale di non riconoscere la giunta. Al contempo nasce il suo braccio armato, la Forza di Difesa Popolare (Pdf), in cui si aggregano persone comuni. Le milizie etniche autonomiste e separatiste, che negli ultimi dieci anni avevano quasi tutte firmato un cessate il fuoco con il governo, tornano a combattere contro l’esercito birmano.

La rivoluzione studentesca del 1988, quella dei monaci del 2007, l’impegno politico lungo 36 anni della Nobel per la pace Aung San Suu Kyi — della quale non si hanno notizie da oltre un anno — e dei suoi sostenitori hanno preparato il terreno alla democrazia. Così, nel 2021 la maggior parte dei 54 milioni di abitanti del Myanmar decide di non fermarsi. La guerra civile, che prima aveva coinvolto solo l le minoranze, si allarga a tutto il Paese.

In questi tre anni i militari hanno agito seguendo l’ordine “brucia tutto, uccidi tutti”, con l’appoggio e il rifornimento di armi da parte della Russia di Putin e della Cina di Xi Jinping, interessata alle risorse del Myanmar e ai suoi corridoi via terra e via mare per il controllo dell’Oceano Indiano. Ogni genere di abuso è stato compiuto: arresti e processi sommari, torture, esecuzioni, condanne a morte, stupri e uccisioni di massa, bombardamenti a tappeto, utilizzo di mine, distruzione di interi villaggi, attacchi a infrastrutture ed edifici civili come ospedali, scuole, chiese, pagode. Secondo l’Assistance Association for Political Prisoners — Aapp, più di 4mila persone sono state uccise e oltre 25mila arrestate, anche se il Peace Research Institute di Oslo — Prio stima un numero molto più alto di vittime. Quasi 18 milioni di individui — fra cui 6 milioni di minori — necessitano di assistenza umanitaria. Decine di migliaia i profughi in Thailandia e India, a cui si aggiungono i 700mila Rohingya che non possono rientrare dal Bangladesh.

Dal suo esilio in Germania, la presidentessa della Federazione dei lavoratori industriali, Khaing Zar Aung, spiega: «Ero venuta per un master, ma sono dovuta rimanere a causa del golpe. Messi da parte gli studi, da qui mi occupo delle relazioni con l’Ue, gli organismi internazionali, i grandi marchi che producono nel mio Paese». Come Ti Chia è sulla lista nera della giunta, ma a 40 anni l’ex operaia tessile, non si scoraggia: «Avevamo ottenuto un aumento del salario minimo da 0,5 cents a 3,5 dollari al giorno, orari sostenibili e un giorno di riposo. Adesso che è saltato tutto, centinaia di migliaia di lavoratori preferiscono non tornare in fabbrica. La situazione peggiore è nelle aziende cinesi, che già non rispettavano affatto i diritti dei lavoratori».

Con Khaing e Ti Chia è sempre in contatto Cecilia Brighi, segretaria generale di Italia — Birmania Insieme: «La risposta della comunità internazionale al golpe birmano è stata timida. L’unica risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu — sul quale pende il veto di Russia e Cina — è stata ignorata. Non bastano le sanzioni mirate di diversi Paesi ad alcuni militari e banche. Servono sanzioni economiche e un embargo globale delle armi». Questi strumenti non violenti potrebbero far cadere la giunta che dallo scorso autunno vacilla. Il Tatmadaw (esercito birmano) sta subendo l’avanzata della resistenza armata, partita il 27 ottobre. I soldati birmani si stanno arrendendo a centinaia. Gli scontri sono cresciuti in modo esponenziale. Gli sfollati interni hanno raggiunto i 2 milioni e 600mila. In attesa di un’azione coordinata dei maggiori attori internazionali, una cosa è sicura: «Vogliamo un Myanmar libero, per questo non ci arrenderemo mai», dicono Ti Chia e Khaing all’unisono nel nostro collegamento video.

Nella foto: Khaing Zar Aung, sindacalista esule in Germania, tra i protagonisti della Rivoluzione non violenta con il gesto della mano copiato dal film Hunger Games

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