Browse By

Striscia di Gaza. Il medico italiano in corsia a Khan Younis: io, costretto ad amputare

La drammatica testimonianza del dottor Ley: «Curiamo ferite da schegge e da ustioni provocate dalle esplosioni». I bambini prime vittime, con ferite terribili

di Nello Scavo

Sul tetto dell’ospedale hanno dispiegato per bene una bandiera di sei metri per sei: c’è il simbolo della Croce Rossa Internazionale. «Impossibile che aerei, droni e satelliti non la vedano», dice al telefono il dottor Paul Ley, che a Gaza deve ricomporre le ossa rotte dei civili a cui spesso tocca dire una cosa: «Dobbiamo amputare». E mentre ce lo racconta, tra interruzioni della rete e corse in sala operatoria, dal telefono sentiamo distintamente uno di quei colpi ravvicinati che fanno imprecare. «Questo non ci è caduto addosso – esclama il medico italiano –, qualche giorno fa un mio collega è stato investito dalle schegge di vetro».

Di famiglia francese ma cresciuto nel Varesotto, Ley non ha fatto altro che stare in guerra. Prima con i missionari comboniani, poi 14 anni con Gino Strada negli ospedali di Emergency, e dal 2014 con il Comitato internazionale della Croce Rossa. Timbro vocale grave, e la rassicurante calma del medico che vorresti incontrare quando finisci in guai seri, impiegheremo tre giorni a completare la chiacchierata dall’epicentro del conflitto.

Non c’è niente che stia andando come dovrebbe. La fuga dall’ospedale di al-Shifa è ancora una corsa per non morire. Le ambulanze sono a terra, i corridoi umanitari un miraggio, e c’è chi si sposta lasciandosi trainare da un bue morto di fame e paura (vedi foto qui sotto), come la famiglia che si è presentata nell’Ospedale Europeo a Khan Yunis, nel sud tornato nel mirino dei bombardieri, con un bambino operato a Nord, ma che a Nord non ci si può più stare. Avvolto in un sudario, che sembrava esanime, il ragazzino si salverà. Ma non era così che doveva essere evacuato.

«O come quell’uomo giunto da noi con una gamba sola. Era stato amputato da poco ma non poteva restare ad al-Shifa, ed è venuto a piedi, percorrendo chilometri in quelle condizioni», racconta Ley.

In corsia è l’inferno raccontato a bassa voce. Una bambina triamputata, gli arti di un adulto tranciati e gettati nel secchio dei rifiuti speciali, o quella madre a cui non è stato così difficile dire che dopo l’anestesia si sarebbe svegliata senza più le gambe. Il difficile è stato ascoltare la sua risposta: «Hanno bombardato la nostra casa – ha spiegato al dottore –. Sono morti mio marito e tutti i miei figli. Sono rimasta solo io. Intera o a pezzi, io sono già una persona morta».

Le immagini che ci manda Paul Ley tolgono il sonno. Una bambina è stata schiaffeggiata da una scheggia grande coma un’ascia: il naso non c’è più, l’occhio destro è cucito. Non si riaprirà più. Quante ne ha viste questo chirurgo di prima linea. «Ma mai come questa volta – confessa -. Dall’Africa all’Afghanistan non so neanche in quante guerre sono stato, ma una cosa così, con tanti bambini morti e feriti, mai».

La Striscia di Gaza è un ammasso di edifici «che la distanza tra un obiettivo militare legittimo e uno da risparmiare, quando va bene è di 150 metri». Che vuol dire un niente quando a cadere sono le bombe da diversi quintali. «La maggior parte dei nostri pazienti sono ustionati, ma soprattutto il 40% sono ragazzi e bambini al di sotto dei 15 anni, nessuno di loro può essere considerato in età da combattimento», insiste Ley sgombrando il campo dai sospetti di chi dice che sul tavolo operatorio ci finiscono soprattutto i miliziani di Hamas.

Prima ancora che arrivi il referto delle radiografie il dottore sa già come sono andate le cose: «Vediamo ferite da schegge e da ustioni provocate dalle esplosioni. Poi ci sono le lesioni da “blast”, l’onda d’urto che provoca ustioni e soprattutto traumi al torace con ricadute polmonari e spesso cerebrali».

Come faccia a reggere la pressione mentre intorno piovono saette mortali è impossibile da spiegare. Capita però che siano i pazienti a spezzare la litania dei tormenti. «Una donna palestinese vuole che la chiamiamo “Wonder Woman”», racconta Ley mentre per un solo istante s’intuisce che su quella faccia di chi ha viste troppe si sta aprendo un sorriso: «Ci ha detto che la guerra le ha fatto scoprire di avere i superpoteri. È stata sbalzata da terra al secondo piano, per ripiombare di nuovo al terreno». Viva e con le ossa rotte. «In un istante – ripete la signora per sdrammatizzare – sono andata a salutare la mia vicina del secondo piano e sono tornata giù».

Ma in guerra non c’è mai lieto fine. E chi in guerra ci va per rammendare i corpi, lo sa che guarire non vuol dire restare vivi. Prima di chiudere con l’ultima chiamata della sera, chiediamo a Paul Ley come sta la ragazzina che rischia la vista. Il dottore dice che se la caverà, ma lei ha capito che la sua vita non sarà come avrebbe desiderato. Perciò piange, più che per il dolore. «Quella che vedi nella foto – dice Ley – non è una emorragia. Sono le sue lacrime, e sono rosso sangue».

Avvenire

Please follow and like us: