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Testimoni scomodi, da eliminare: la mattanza di giornalisti a Gaza

Testimoni scomodi di un genocidio in atto. Testimoni da colpire. Eliminare. La mattanza di giornalisti a Gaza

di Umberto De Giovannangeli

Un editoriale coraggioso è quello di Haaretz: “ll giornalista Wael Dahdouh era al lavoro  a Gaza City il 25 ottobre quando ha appreso che sua moglie, suo figlio, sua figlia e suo nipote erano stati uccisi in un attacco israeliano a un campo profughi vicino a Rafah. Dahdouh,  capo dell’ufficio di Gaza di al-Jazeera, è tornato al lavoro due giorni dopo ed è diventato un simbolo. Domenica scorsa, ha perso un terzo figlio quando Hamza Dahdouh – anche lui giornalista – è stato ucciso nel sud di Gaza mentre viaggiava in auto con altri giornalisti. Due di loro sono stati uccisi, tre sono sopravvissuti.

A Israele piace ritrarre ogni giornalista di Gaza come un Hamasnik, o almeno come sostenitori del terrore. Il resto del mondo li vede come giornalisti che mettono in pericolo la loro vita e lavorano in condizioni impossibili.  Molti di loro sono giovani che usano i loro numerosi seguaci sui social media per dire al mondo cosa sta succedendo a Gaza. A causa del blocco, la stampa straniera ha avuto difficoltà a inviare giornalisti nell’enclave anche prima dello scoppio della guerra.

Dal 7 ottobre, almeno 79 giornalisti sono stati uccisi nei combattimenti a Gaza e nel sud del Libano. Di questi, 72 sono stati palestinesi uccisi a Gaza da Israele e quattro di loro israeliani che sono stati uccisi da Hamas il giorno del massacro del 7 ottobre. Altri tre sono stati uccisi da Israele in Libano.

Secondo il Comitato per la protezione dei giornalisti, l’organizzazione che documenta l’accaduto e aggiorna le cifre delle vittime, , già alla fine di dicembre il numero di giornalisti uccisi nell’operazione Spade di Ferro era un record relativo alla durata dei combattimenti. In effetti, il bilancio a Gaza è superiore al numero di morti in qualsiasi paese in un anno intero, almeno da quando l’organizzazione ha iniziato a tenere registri nel 1992.

Le forze di difesa israeliane negano ripetutamente di prendere di mira i giornalisti o di considerarli come obiettivi legittimi. Dice che fa di tutto nella sua capacità di prevenire danni agli innocenti. Ma quando il numero di morti a Gaza continua a salire ed è oggi più di 23.000, la maggior parte dei quali donne e bambini e uomini non combattenti, l’idea che i giornalisti siano protetti dall’Idf sembra ridicola. Lo scorso maggio, il Comitato per la protezione dei giornalisti ha pubblicato un rapporto secondo cui l’Idf aveva ucciso 20 giornalisti dal 2001. Nessun soldato è mai stato perseguito in relazione a questi omicidi; in un solo caso è stata aperta un’indagine penale.

Nei media israeliani, l’uccisione di civili e giornalisti durante una trasmissione in diretta non suscita preoccupazione, né è pronta a criticare il danno alla libertà di stampa nella Striscia di Gaza. Si può solo sperare che anche i giornalisti israeliani capiscano che i loro colleghi di Gaza non smetteranno di fare il loro lavoro e che non ha senso sperare che ciò che sta accadendo a Gaza non venga mai riportato. Avrebbero fatto bene a parlare contro l’uccisione dei loro colleghi”.

Così Haaretz. Chapeau. 

La mattanza continua

Mustafa Abu Thraya, Hamza Wael Dahdouh e Ali Salem Abu Ajwa sono i nomi dei giornalisti uccisi da uno dei raid israeliani del 7 gennaio. Dall’inizio del conflitto nella Striscia di Gaza, secondo le Ong, sono almeno 80 i cronisti ammazzati mentre facevano il loro lavoro. . I primi due delle tre vittime lavoravano per al Jazeera che, in una nota, ha condannato l’attacco: “Israele viola i principi della libertà di stampa”, è la denuncia dell’emittente con sede in Qatar secondo cui l’auto dei giornalisti “è stata presa di mira”. Hamza era il figlio di Wael Dahdouh, capo dell’ufficio di al Jazeera a Gaza e già testimone della morte della moglie e di altri due figli. La terza vittima, Ali Salem Abu Ajwa, lavorava come cronista a Gaza e secondo il Times of Israel era nipote dello sceicco Ahmed Yassin, che fondò Hamas a Gaza nel 1987.

A fornire gli ultimi dati sulle morti, il 31 dicembre scorso, è stata la ong Committee to protect journalist: a fine 2023 si contavano almeno 77 giornalisti e media workers uccisi.  Di questi: quattro sono israeliani, tre libanesi e 70 palestinesi. La ong Press Embleme Campaign ha denunciato che “si tratta del più alto numero di vittime dei media in un conflitto in un periodo di tempo così breve“. Il presidente Blaise Lempen ha condannato gli “attacchi indiscriminati che non distinguono tra civili e combattenti di Hamas”: “Sebbene sia difficile verificare se i giornalisti siano stati presi di mira intenzionalmente o meno”, si legge nella nota diffusa il 3 gennaio scorso, “l’esercito israeliano ha sistematicamente distrutto i media palestinesi a Gaza bombardando i loro uffici e le loro strutture“.

Il Committee to protect journalist conta, dall’inizio del conflitto, le morti di cui viene a conoscenza e fa verifiche in tempo reale su molte altre. Le cifre sono diverse da quelle dell’ultimo rapporto di Reporter senza frontiere che, a dicembre scorso, certificava “solo” 17 giornalisti morti mentre lavoravano a Gaza. Come spiegato dall’emittente France24, la discrepanza è dovuta al fatto che RSF non tiene conto dei professionisti dei media morti ad esempio durante il bombardamento delle loro case.

Intanto la ong Committee to protect journalist ha fatto sapere di essere “particolarmente preoccupata per un apparente schema di attacchi ai giornalisti e alle loro famiglie da parte dell’esercito israeliano”. In almeno un caso, continuano, “un giornalista è stato ucciso mentre indossava chiaramente le scritte della stampa in un luogo in cui non erano in corso combattimenti. In almeno altri due casi, i giornalisti hanno riferito di aver ricevuto minacce da funzionari israeliani e ufficiali dell’Idf prima che i loro familiari venissero uccisi”. Il cpj, nel comunicato del 6 gennaio, ha fatto sapere che “sta indagando su numerose segnalazioni non confermate di altri giornalisti uccisi, scomparsi, detenuti, feriti o minacciati e di danni agli uffici dei media e alle case dei giornalisti”. Sherif Mansour, coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa ha aggiunto: “I giornalisti sono civili che svolgono un lavoro importante in tempi di crisi non devono essere presi di mira dalle parti in conflitto. I giornalisti di tutta la regione stanno facendo grandisacrifici per coprire questo conflitto straziante. Quelli di Gaza, in particolare, hanno pagato, e continuano a pagare, un tributo senza precedenti e affrontano minacce esponenziali. Molti hanno perso colleghi, famiglie e strutture mediatiche e sono fuggiti in cerca di sicurezza quando non c’è un rifugio o un’uscita sicura”.

“Il mondo dovrebbe vedere con due occhi, non solo con l’occhio israeliano. Dovrebbero vedere tutto ciò che accade al popolo palestinese”, ha detto Wael Dahdouh durante i funerali di suo figlio. “Che cosa ha fatto Hamza a loro [agli israeliani]? Cosa gli ha fatto la mia famiglia? Cosa gli hanno fatto i civili? Non gli hanno fatto nulla, ma il mondo chiude gli occhi su ciò che sta accadendo nella Striscia di Gaza”.

Il Segretario di Stato americano, Antony Blinken, che è al suo quarto tour in Medio Oriente, ha dichiarato di essere “profondamente, profondamente dispiaciuto” per la perdita di Dahdouh. “Sono un genitore anch’io, non posso immaginare l’orrore che ha vissuto, non una, ma due volte. Questa è una tragedia inimmaginabile e lo è stata anche per troppi uomini, donne e bambini palestinesi innocenti”, ha detto ai giornalisti durante una sosta in Qatar.

“I giornalisti di Gaza, in particolare, hanno pagato e continuano a pagare un tributo senza precedenti e devono affrontare minacce esponenziali”, ha dichiarato Sherif Mansour,, coordinatore del programma Medio Oriente e Nord Africa del Cpj. “L’uccisione dei giornalisti Hamza Al Dahdouh e Mustafa Thuraya deve essere oggetto di indagini indipendenti e i responsabili della loro morte devono essere chiamati a risponderne. Le continue uccisioni di giornalisti e dei loro familiari da parte dell’esercito israeliano devono finire: i giornalisti sono civili, non obiettivi”. 

L’Ufficio delle Nazioni Unite per i Diritti Umani si è detto  “molto preoccupato” per l’alto numero di morti degli operatori dei media a Gaza e ha chiesto che le uccisioni di tutti i giornalisti siano “indagate in modo approfondito e indipendente per garantire il rigoroso rispetto del diritto internazionale e che le violazioni siano perseguite”. Richieste che fanno seguito ad altre fatte anche dal Cpj dopo altre uccisioni in questi quattro mesi.

Una testimonianza eroica

Scrive Maha Hussein, reporter e attivista dei diritti umani di base a Gaza,  per The New Humanitarian, tradotto e pubblicato in Italia da Pagine Esteri: “Come giornalista palestinese e attivista per i diritti umani nella Striscia di Gaza che racconta l’impatto della guerra israeliana che dura ormai da due mesi e mezzo, sto diventando sempre più consapevole che potrei essere il prossimo obiettivo di un attacco aereo israeliano. Da quando Israele ha iniziato a bombardare e assediare Gaza il 7 ottobre – lanciando un’invasione di terra dell’enclave tre settimane dopo – almeno 97 giornalisti sono stati uccisi, secondo l’ufficio stampa del governo di Gaza. Committee to Protect Journalists, una Ong internazionale, stima a 61 il numero dei morti a Gaza durante la guerra.

Molti di questi giornalisti e operatori dei media sono stati uccisi mentre lavoravano, ma altri sono stati uccisi insieme ai membri delle loro famiglie mentre erano a casa o nelle case in cui si erano rifugiati dopo essere stati sfollati con la forza. I giornalisti uccisi sono un piccolo sottoinsieme delle  20.000 persone – di cui circa il 70% donne e bambini – che sono state uccise dalla campagna militare di Israele a Gaza dal 7 ottobre.

Non dovrei essere obbligata a ricordarlo, ma i giornalisti sono civili e i civili non dovrebbero essere presi di mira nelle operazioni militari: si tratta di una violazione del diritto internazionale umanitario.

A causa della difficoltà di raccogliere prove, in molti casi è difficile dimostrare in modo definitivo che Israele stia deliberatamente prendendo di mira i giornalisti. Tuttavia, l’elevato numero di operatori dei media uccisi a Gaza sembra essere intenzionale o dimostrare che l’esercito israeliano sta operando con un totale disprezzo per la vita dei civili – o entrambe le cose.

Ci sono comunque prove che le forze israeliane abbiano intenzionalmente preso di mira i giornalisti; sia durante le attuali ostilità – come nel caso dell’attacco del 13 ottobre che ha ucciso il giornalista libanese Issam Abdullah – sia recentemente, con l’uccisione della giornalista palestinese Shireen Abu Akleh in Cisgiordania nel 2022.

Come giornalisti che lavorano durante i combattimenti, indossiamo giubbotti antiproiettile ed elmetti per identificarci chiaramente come membri della stampa. Questa dovrebbe essere una forma di protezione, che segnala ai combattenti di non prenderci di mira. A Gaza, le giacche e gli elmetti dei giornalisti sono sempre più spesso considerati un problema. I miei colleghi giornalisti a volte preferiscono toglierseli quando fanno reportage in luoghi pubblici affollati, temendo che la loro presenza visibile nell’area possa provocare un attacco da parte di Israele.

Anche i residenti di Gaza hanno sempre più paura di trovarsi nello stesso posto dei giornalisti. Uno di recente mi ha detto: “Ovunque si trovi un giornalista può essere preso di mira”.

Il nostro dovere è fare luce

Ho vissuto tutta la vita sotto l’occupazione israeliana e so che in passato i giornalisti palestinesi sono stati presi di mira e uccisi a Gaza e in Cisgiordania. Ma in qualche modo credevo ancora che essere un giornalista mi garantisse una sorta di sicurezza durante gli attacchi militari. Volevo credere che quando i giornalisti venivano uccisi negli attacchi aerei o dai proiettili dei cecchini, non fossero il bersaglio designato, che la loro morte fosse un incidente.

Durante la seconda settimana dell’invasione israeliana, stavo facendo un servizio in diretta per un canale televisivo dalla casa in cui mi sono rifugiata dopo essere stato costretta a lasciare la mia abitazione. Descrivevo la situazione a Gaza e riferivo degli attacchi di Israele.

Pochi minuti dopo aver terminato l’intervista, ho ricevuto una telefonata da un parente all’estero che l’aveva vista per caso. “Sai che puoi essere presa di mira nella casa dove stai, e che tutti quelli che sono con te possono essere uccisi a causa del tuo lavoro?”, mi ha chiesto. Un altro collega straniero mi ha poi domandato: “Come ti senti a lavorare in una professione in cui un collega giornalista viene ucciso ogni giorno?”.

Nonostante il pericolo e la sensazione di essere un bersaglio, i giornalisti a Gaza hanno continuato a coprire gli eventi sul campo. È nostro dovere raccontare ciò che sta accadendo, soprattutto perché Israele e l’Egitto non permettono ai giornalisti internazionali di entrare a Gaza se non per missioni controllate dall’esercito israeliano. Senza di noi, la morte, la distruzione e la sofferenza causate dalla campagna militare e dall’assedio di Israele si svolgerebbero all’oscuro di tutto.

Anche noi viviamo la catastrofe

Mentre continuiamo a fare il nostro lavoro – anche se sentiamo sempre più spesso che le nostre vite sono minacciate a causa della nostra professione – viviamo la catastrofe a Gaza come chiunque altro.

Sentiamo che potremmo essere uccisi da un momento all’altro, o che le nostre famiglie o i nostri vicini potrebbero essere uccisi. Ogni giorno, ogni momento, mi confronto con l’idea che potrei essere uccisa. Nella mia testa, convivo con questo pensiero, implorando di avere un giorno in più per scrivere un’altra storia o intervistare un’altra vittima di questa guerra. Sento l’immensa responsabilità di rimanere in vita il più a lungo possibile, non solo per la mia sicurezza, ma anche per continuare a dare voce a tutte le persone senza voce che incontro ogni giorno.

Se dovessi essere uccisa, so che ci sono decine di giornalisti che continueranno il lavoro. Ma sento anche di dover lottare per poter continuare a lavorare, per andare avanti, a qualunque costo.

Essere un giornalista a Gaza significa essere sia la persona che racconta un attacco sia la vittima che ne è testimone. Sei il giornalista che scrive delle centinaia di migliaia di sfollati forzati, e sei uno degli sfollati costretto a fuggire perché il tuo quartiere è stato bombardato a tappeto e la tua casa è stata distrutta. Sei quello che scrive delle interruzioni di corrente a Gaza usando carta e penna, fotografando la tua storia scritta a mano per inviarla via WhatsApp e risparmiare la batteria del tuo cellulare.

Quando citi le fonti a sostegno dei tuoi articoli, sei uno del 56% dei residenti che soffrono di gravi livelli di fame e uno.a dei 350.000 sfollati – su 1,9 milioni in totale – che patiscono malattie e diarrea a causa dell’acqua contaminata e della mancanza di forniture igieniche. E sei uno dei 2,3 milioni di residenti di questa enclave che vorrebbero essere tutto tranne che esseri umani che vivono a Gaza in queste condizioni disumane.

Globalist

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