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Torture, rapimenti, bambini-soldato: la guerra in Yemen vista da dentro…

Reportage dal fronte di Naham, a 36 chilometri dalla capitale Sanaa. Dove Arabia Saudita e Iran si fanno la guerra sulla pelle dei civili. Le immagini.


di Chiara Clausi

Villaggi deserti si susseguono veloci. Poche case in mattoni. Uomini armati con il pugnale ricurvo alla cintura e lo sguardo fiero. Distese desolate. Check-point controllati da miliziani che portano il kalashnikov in spalla. Si attraversa un passo tra montagne rosse, brulle. Nessun bambino, nessuna donna. Il furgoncino si inerpica su una strada sulle montagne. Il paesaggio è pietroso, desertico, solo qualche acacia e arbusto basso. Gole tra le valli, attorno il nulla. Dopo un’ora e 20 di macchina si arriva al fronte di Naham, sotto scorta.

Sanaa, la capitale dello Yemen, è ad appena 36 chilometri. La città è ancora in mano agli houthi, la milizia sciita sostenuta dall’Iran. Davanti all’ultima postazione su una vetta di 2.300 metri tra montagne imprendibili, il generale Hahmad Assan Jubral, tuta mimetica e berretto rosso, punta il dito oltre una barriera di terra dove i militari si nascondono per osservare gli houthi: «Lì ci sono i guerriglieri sciiti, nelle montagne di fronte, a cinque chilometri. Il villaggio di Barran è vuoto, sono scappati tutti. Solo 10 giorni fa qui è esploso l’ultimo missile». Quanti sodati ci sono in questa postazione? «Non posso dirlo, sono informazioni sensibili». Quando arriverete a Sanaa? «Presto, molto presto». Solo un mese fa un missile degli houthi ha colpito una macchina che precedeva quella di alcuni occidentali che stavano andando al fronte. Gli agguati e gli attacchi sono frequenti in questa zona.

NEI SUQ SI VENDE DI TUTTO, ANCHE ARMI
È uno dei fronti più importanti di una guerra inaccessibile che ha fatto 230 mila morti. Per arrivare al fronte bisogna passare per Marib, a una quarantina di chilometri da Naham. Marib è una cittadina a cui è stata rubata l’anima. Strade sterrate, buste di plastica sul ciglio, case incomplete, pick-up con su yemeniti che portano fucili e pistole. In Yemen tutti sono armati. Montagne di spazzatura. Polvere. Sembra un paesaggio da fine del mondo, quasi marziale. Nel centro di Marib c’è un tipico suq. Nei negozi si vendono miele, oro, braccialetti, collane, con il tipico ricamo yemenita, ma anche armi, alla luce del sole. Le donne indossano il tradizionale niqab nero, lasciano scoperti solo gli occhi. Gli uomini masticano il qat, la droga locale. Sono foglie che si ruminano per tutta la giornata.

Il qat ha effetti simili alle foglie di cocaina, dà dipendenza e una sensazione di eccitazione e invincibilità, poi di depressione. Qui è legale, è parte della tradizione del popolo yemenita. Per strada c’è un gran caos, motociclette, macchine vecchie, bambini che giocano, corrono.

LO YEMEN E LA PIAGA DEI BAMBINI-SOLDATO
Questa guerra ha prodotto orrori senza fine: 100 mila caduti nei combattimenti e oltre 130 mila per la fame e le malattie. Soprattutto il colera. Ma l’orrore più grande è quello dei bambini-soldato. Colpisce la storia di Abdullah, 14 anni e un po’ di gelatina sui capelli. Sembra un piccolo uomo, camicia rossa, cintura ai pantaloni e scarpe classiche con la punta allungata.

“Per tre giorni mi hanno insegnato come sparare. Mi davano solo un pezzo di pane al giorno. Mi obbligavano a ingerire pillole per farmi passare la paura”

Abdullah, 14 anni
Abdullah viene da Umran e quando inizia a a parlare gli occhi gli diventano tristi. «Gli houthi mi volevano reclutare, ma mio padre si è opposto. Un giorno all’uscita da scuola un uomo mi ha tirato uno schiaffo e mi ha obbligato a seguirlo in macchina», racconta. «Per tre giorni mi hanno insegnato come sparare. Mi hanno portato sul fronte di Baida. Dandomi solo un pezzo di pane al giorno. Mi obbligavano a ingerire pillole per farmi passare la paura e scalare rapidamente le montagne». Abdullah sorvegliava la postazione durante la notte: «Noi bambini eravamo in prima linea, gli adulti dietro. Sono stato ferito anche a una gamba, un mio amico è morto in un attacco. Due giorni dopo che sono stato liberato è morto anche mio padre».

IL CAMPO PROFUGHI DI ELMIL, TRA DISPERAZIONE E SPERANZA
La Wethaq Foundation, finanziata dal King Salman Relief, si preoccupa di recuperare questi bambini. Nel programma sono 242. Un impegno concreto, che comunque non cancella le morti di innocenti provocate nel conflitto da Riad. In Yemen ci sono 12.433 bambini-soldato, il 75% reclutati dagli houthi. C’è anche chi ha riportato conseguenze indelebili sul proprio corpo da questa guerra. Come Saleh, nove anni, a cui manca una gamba, si muove con una stampella e una protesi. «Stavo giocando vicino casa, a Baida e una mina mi è esplosa tra i piedi. Da quel momento la mia vita è cambiata e non ritornerà più come prima». Saleh ha i capelli scuri e ricci. I suoi occhi hanno già visto il terrore. Come i bambini del campo profughi di Elmil, che ospita 120 famiglie e 540 persone. Hanno occhi disperati ma attraversati da piccole luci di speranza.

In una tenda con i tappeti zeppi di polvere c’è una piccola televisione che trasmette cartoni animati per i bimbi del campo che corrono a piedi nudi tra la terra. Um Ezam ha 30 anni, indossa un niqab nero. Viene da Sanaa ed è qui da due anni. Il marito è stato rapito, ora è libero, dopo un riscatto di 1 milione di rial. È stato preso dagli houthi. Dopo una decina di minuti arriva anche lui. Muhammed al Foley, 32 anni, ha una tunica blu e un fazzoletto beige. «Prima di essere rapito vendevo il qat. Sono stato messo in prigione, ho dormito in un bagno con gli escrementi, mi hanno torturato con le scosse elettriche, non mi facevano mangiare. Poi sono scappato. Ho dovuto pagare 60 mila rial a un passeur. Ora spero solo che andrà meglio. Ma solo Dio sa se potrà andare meglio».

“Le condizioni in cui vivono i rapiti sono disumane. Li appendono per un braccio, gli iniettano sostanze chimiche che gli procurano dolori insopportabili, gli strappano le unghie, gli cavano gli occhi”

Rukia , 25 annni

A Marib è sorta un’associazione per dare voce alle nefandezze di questa guerra. La lega delle mogli e delle madri dei rapiti. Rukia Abdullah, 25 anni, ingegnere, gesticola nervosamente. Il padre è stato rapito per sei mesi, ora è libero. C’è stato uno scambio con gli houthi, i miliziani hanno preteso il rilascio di uno dei loro combattenti. «Le condizioni in cui vivono i rapiti sono disumane. Gli puntano la pistola alla testa, li appendono per un braccio, gli iniettano sostanze chimiche che gli procurano dolori insopportabili, gli strappano le unghie, gli cavano gli occhi, li obbligano a bere l’acqua del bagno», racconta Rukia.

Questa è anche la storia di Mufadal Aljiddi, 29 anni, i capelli già quasi tutti bianchi. Ha una stampella, mostra le ferite delle torture sulla gamba. Ha una corporatura esile e uno sguardo ancora provato. È stato rapito nel 2016 per due anni e due mesi. Era uno studente del Corano. «Sono stato legato per una mano e una gamba per più di 10 ore», racconta. «Mi hanno torturato davanti altre persone. Mi hanno lasciato dormire per due giorni negli escrementi». I rapiti dal 2016 sono 5.400, 116 le donne.

LE ARMI IRANIANE PARTONO DA BEIRUT, QUELLE SAUDITE (ANCHE) DALL’ITALIA
Non esiste un solo colpevole. L’impegno saudita in questa guerra è pesante. Il 60% del budget proviene da Riad, 2 mila sono i militari sauditi in Yemen e 300.000 quelli yemeniti, anche se non sono un vero esercito. «L’Iran vuole fare dello Yemen ciò che ha fatto del Libano, una milizia armata, gli houthi, all’interno della Stato», dicono dal governo saudita. I carichi di armi partono da Beirut, passano poi per la Siria, per Bandar Abbas in Iran, per arrivare a Hodeida in grossi container. Le bombe dell’Arabia Saudita, invece, spesso arrivano dall’Italia. E non fanno meno danni. A pagare il prezzo sono comunque sempre i civili. «Il nostro obiettivo è portare gli houthi al tavolo delle trattative», conclude la fonte del governo saudita. «La pressione militare è il primo passo per ottenere una soluzione politica».

www.lettera43.it

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