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Un bambino piange perché sta morendo dal freddo…

di Angelo Morsellino

Avrei preferito non sentire quelle parole. Forse avrei preferito non trovarmi lì, con Hammudi vicino al fuoco e non piangere. Mi ero ripromesso di non piangere più, di non farmi fregare dalla rabbia e dalla disperazione. Ma non ce l’ho fatta. Ho fallito.

Qualche giorno fa di mattina eravamo in giro vicino al campo profughi di Vial. So bene ormai che le condizioni di vita dei rifugiati sono pietose, ma non mi ci abituo mai. Come potrei?!
Faceva freddo, con quel vento gelido che ti taglia la faccia ad ogni passo, con i piedi che affondavano nel terreno che era diventato fango a causa del temporale della notte. Intorno a me bambini e ragazzi scalzi, con le ciabatte, spesso senza calzini. Qualcuno a mezza manica, senza giubbotto. E io mi vergognavo di sentire freddo, con il pantalone, le scarpe, il maglione, il giubbotto, la sciarpa e il cappello. Ad ogni passo mi sentivo in colpa, e gli altri volontari con me. “Non fare espressioni che facciano capire che abbiamo freddo, è ridicolo”, ci urlavamo a vicenda.

Avevamo trovato un modo per dare le sciarpe e i cappelli a chi non li aveva, senza rischiare che chi li avesse ci assalisse dicendo di non averne. La disperazione fa mentire, spesso fa fare di peggio. E seimila persone disperate non sono sempre in armonia ed equilibrio tra loro.
Così Luisa mette sciarpa, cappello e guanti ad ognuno di noi, conservandone altri 100 nello zaino e ad ogni curva, cespuglio o albero in cui trovavamo qualcuno che ne era sprovvisto, fingevamo di regalargli quello che usavamo noi, poi proseguivamo e ne aprivamo un altro completo. Così evitavamo risse, non eravamo volontari che distribuivano qualcosa, eravamo persone che stavano regalando la propria sciarpa e il proprio cappello a qualcuno che aveva freddo.

Sarebbe stato anche divertente guardarci dall’alto, ad ogni albero cambiavamo colore; ogni dieci passi avevamo il cappello rosso, poi nero, poi verde, pescando di continuo dallo zaino di Luisa. È tra una curva e l’altra che ho visto Hammudi, piccolo, indifeso, solo, che si riscaldava i piedi nudi davanti ad un fuoco.
Non sapevamo se avesse o meno una famiglia che fosse andata a reclamare indumenti invernali, quello che vedevamo era un bambino di 10 anni che tremava dal freddo e cercava riparo vicino a qualche pezzo di legno che bruciava.

“Mi ci avvicino io”, dico agli altri, “passatemi dei guanti”. Così vado vicino al fuoco, gli sorrido, gli dico in arabo “come stai, piccolo?” e mi sfilo il cappello per metterglielo in testa. Poi i guanti e poi la sciarpa.

Hammudi alza la testa, mi guarda, tira in su col naso e inizia a piangere. Ma non di un pianto disperato, le lacrime gli scendono con dignità, come un adulto che è esausto e che non trova una via di uscita. “Grazie amico. Spero che Dio ti benedica”.

Un bambino piange perché sta morendo dal freddo, si avvicina uno sconosciuto e gli da una sciarpa. Quanta umiliazione deve esserci in qualcuno che neanche elemosina qualcosa dagli altri, ma accetta in silenzio un regalo e si commuove?

Dio mi benedica? Io mi chiedo perché Dio mi ha fatto trovare li, quasi maledicendomi, a sentirmi distrutto da quello che stava accadendo, a sentirmi una merda perché neanche avevo idea di cosa si provasse ad essere guardato da un bambino con le lacrime sulla faccia ed essere ringraziato.
Ma ringraziato poi per cosa? Per avergli allungato una sciarpa? Era anche di un colore brutto, marrone, io neanche la metterei quella sciarpa. Maledetta sciarpa e maledetto me che mi lamento dei problemi che ho e che ora non mi sembrano poi così grandi.

“Dio mi ha già benedetto”, gli ho detto, “io invece spero che benedica te.”
Mi ha abbracciato e io mi sentivo così stordito, maledetto e benedetto allo stesso tempo. Non sapevo cos’altro dire, sarebbe stato tutto superfluo, soprattutto quando le lacrime sono iniziate ad uscire anche a me, nonostante l’espressione arrabbiata. Così ho abbassato la testa e mi sono seduto con Hammudi per dieci minuti, siamo stati in silenzio a fissare il fuoco.

Io spero che ogni bambino del mondo venga benedetto, spero che prima o poi nessuno pianga più perché ha freddo. Spero che la vita mandi sempre qualche stronzo come me che non metterebbe una sciarpa marrone, a notare qualcuno per strada che ne ha bisogno e mettergliela al collo. Se ci guardiamo intorno, anche a casa, nelle nostre città, siamo circondati da persone che dormono all’aperto e non hanno niente. Per questo Natale facciamoci una promessa: notiamole. Fermiamoci a fare due chiacchiere con loro, vediamo se hanno bisogno di qualcosa. Perché possiamo comprare tutte le cose materiali del mondo, ma non saremo mai ricchi abbastanza se non siamo disposti ad aiutare qualcuno che non potrà darci niente in cambio.
Allora, è una promessa? Restiamo umani.

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