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Lesbo, l’isola dove i migranti diventano «ombre»: i respingimenti, le decine di tentativi per raggiungere terra, la disperazione

Quando le barche in mare segnalano la loro presenza, gli operatori umanitari cercano di raggiungerle, possibilmente prima delle forze dell’ordine: un tragico gioco a guardie e ladri. Chi ce la fa passa dall’inferno delle onde a quello dei centri di accoglienza

di Massimo Nava

LESBO – Platone, nel mito della caverna, spiega come gli uomini scambino le ombre delle cose per la realtà che ancora non conoscono. La politica greca dell’immigrazione sembra ispirata dal famoso filosofo: se i migranti che attraversano il mare sono ombre, esse si perdono anche nelle statistiche e di fatto non esistono. Certo, il problema non è risolto, ma sembra che lo sia e anche così si tranquillizza il popolo e si vincono le elezioni.

L’isola di Lesbo, negli anni scorsi tragico simbolo, come Lampedusa,
 della grande invasione, è diventata un approdo controllato: numeri e sbarchi ridotti, un campo profughi limitato a 2500 ospiti e selezione rigorosa fra chi ha diritto d’asilo e chi deve lasciare il Paese. Quasi scomparse anche le tracce del gigantesco campo di Moria divorato dalle fiamme tre anni fa. Ed è invece ripreso il turismo in questo paradiso naturale, dove, da secoli, uliveti e pinete riecheggiano di storia e mitologia : Saffo, l’assedio di Troia, la guerra fra Sparta e Atene. Ma le cose stanno un po’ diversamente e l’invito di Platone allo svelamento delle ombre farebbe emergere la realtà.

La costa turca si vede a occhio nudo e gli sbarchi continuano. Tuttavia, come denunciano Medici Senza Frontiere (MSF) e altre ONG, molti dei nuovi arrivati «scompaiono»: in clandestinità o respinti verso la Turchia. Pare riportati al largo per essere raccolti dalla guardia costiera turca. Queste «ombre» sarebbero novecento dall’inizio dell’anno, secondo una denuncia di MSF che parla di «crudeli tattiche di dissuasione».

La primavera scorsa, un reportage del New York Times ha provocato un’inchiesta sul comportamento della guardia costiera, ma questi casi non sarebbero isolati. La caccia all’emigrante, secondo le denuncie, avverrebbe sia in mezzo al mare, quando le imbarcazioni cariche di disperati sono avvistate e respinte, oppure a terra, sulle colline, dove chi riesce a sbarcare si avventura per sfuggire ai controlli. Chi non ce l’ha fatta, ritenta una, due, dieci, quindici volte la traversata, come racconta Yasim, 28 anni, yemenita, studi di economia e inglese perfetto.

Uno che ha raggiunto Lesbo al primo tentativo e ha speso solo cinquecento euro. «I trafficanti in Turchia non hanno prezzi fissi, si sono adeguati alla situazione. Se paghi poco e sei stato respinto hai perso la tua occasione. Ma se paghi fino a duemila euro hai una specie di assicurazione per altri tentativi. Una famiglia palestinese ci ha provato quindici volte e aspetta ancora». Yasmin è arrivato in Turchia dalla Giordania. I contatti con i trafficanti avvengono a Smirne e in altri centri della costa turca. «Non incontri mai il capo dell’organizzazione, ma qualcuno che stabilisce il contatto e ti organizza la traversata. Basta il passaparola nei bar, loro sanno come trovarti e offrirti il passaggio. Non sai dove sarai sbarcato, nè quanto dura il viaggio. Dipende dalle condizioni del mare e dal livello di sorveglianza. L’importante è conservare un cellulare, l’unico modo per contattare le Ong prima che ti prendano quelli della guardia costiera o i loro “collaboratori”. Nessuna sa chi siano, anche perché entrano in azione a volto coperto».

Secondo MSF si spaccerebbero persino come operatori umanitari. «E’ un tragico gioco a guardie e ladri», spiega Duccio Staderini, capo missione di MSF. Il lavoro delle ONG è tollerato, quando non ostacolato. Quando i migranti segnalano la loro presenza, gli operatori umanitari cercano di raggiungerli, possibilmente prima delle forze dell’ordine. Dopo giorni e notti in mare e nella boscaglia, senza acqua e cibo, le condizioni fisiche, soprattutto di donne e bambini, sono drammatiche. «Sono terrorizzati, affamati, i piedi scalzi e le mani sanguinanti», racconta Federica Zamatto, dottoressa, responsabile dell’ambulatorio di MSF dove si assistono migranti vittime di torture, stupri e violenze subite nei campi in Turchia o nei Paesi d’origine.

I migranti sono quindi registrati in un centro provvisorio e poi chiusi nella tendopoli di Mavrovouni, circondata da mura e filo spinato, a nord della capitale Mitilene. Cominciano procedure per richiesta di asilo o espulsione, che, tuttavia, come in ogni Paese, non potrà essere immediata o non avverrà affatto. Così, in questa grottesca meritocrazia della disperazione, i meno «fortunati» perdono briciole di diritto come acqua, cibo, vestiti, assistenza sanitaria. E diventano altre «ombre», affidate a ONG che provvedono alle prime necessità e all’assistenza legale. Fra domanda d’asilo, ricorsi, intoppi burocratici possono passare mesi e anche più, spiega Ozan Balpetek, responsabile del Legal Center di Mitilene. Le «ombre» in attesa sarebbero circa il 30 per cento dei richiedenti. «Poi ci sono quelli che sono stati arrestati con l’accusa di essere trafficanti, ma la colpa è di essere l’unico del gruppo al timone o a parlare inglese».

Ci sono casi clamorosi, come quello di A.I., un ragazzo sudanese che attendo i documenti da mesi, essendo vittima di un caso di omonimia : il «suo» passaporto è stato rilasciato anche a un ragazzo con lo stesso nome, nato lo stesso giorno, che oggi vive in Francia. O come quello di due giovani somali che si sono conosciuti e sposati al campo. Hanno avuto una bambina, ma il matrimonio non è stato riconosciuto. La donna ha ottenuto il diritto d’asilo e vive in Olanda, il suo compagno attende al campo e non ha mai visto sua figlia.

Sotto container e tende infuocate dal caldo record di questa estate, oppressi anche dall’aria immobile, si vive di fatto come reclusi, in competizione per la distribuzione di cibo e per servizi essenziali. Ci sono afghani, eritrei, pachistani, palestinesi, yemeniti, kurdi : la divisione degli alloggi è per famiglie, gruppi etnici, religioni, ma l’ordine non contempla compassione nè solidarietà fra internati, fra chi riceve e chi no. Là fuori, a pochi metri, dietro il filo spinato, c’è il mare azzurro che li ha portati in questo inferno.

Presto si costruirà un altro campo, ma nella foresta, lontano dalle spiagge e dal turismo. Un progetto che ha scatenato le proteste degli ambientalisti, dato il rischio di incendi. Ma la costruzione di campi continua anche su altre isole-paradiso affacciate sulla costa turca. Unità più piccole, che suscitano meno problemi e sopratutto meno attenzione. Le «ombre», i migranti esclusi dall’assistenza pubblica, possono uscire sotto controllo, per raggiungere a piedi, sulla collina, il centro Parea, sostenuto da diverse ONG europee. Qui si mettono in fila per ricevere pacchi di alimenti, pasta, formaggio, frutta, ma mercoledì e giovedì sono giorni speciali perchè si servono anche pasti caldi e persino il gelato. «Distribuiamo cinquecento pasti la settimana – racconta Silvia Lucibello, responsabile del progetto – ma le autorità sostengono che così favoriamo l’immigrazione illegale».

Parea è anche asilo nido, centro di ricreazione, laboratorio fotografico, officina di riparazione biciclette, fondamentali per gli spostamenti dal centro al campo. Un’altra organizzazione, Mosaik, a Mitilene, ha organizzato per le «ombre» laboratori di artigianato e corsi di lingue. Qui si vendono borsette, sacche, necessaire realizzati con tela di gommoni e giubbotti di salvataggio raccolti sulle spiagge di Lesbo. L’etichetta è «Safe Passage Bags”».

Corriere della Sera

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